A cura di Gabriella De Simone
La
parola bullismo deriva dal vocabolo inglese bullying, usato comunemente
per descrivere il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo.
Esso consiste in atti di aggressione perpetrati in modo persistente,
intenzionale ed organizzato, ai danni di uno o più compagni che non possono
difendersi a causa dell'asimmetria di status o di potere. Non va confuso con un
mero conflitto o con manifestazioni di vandalismo, così come sostenuto da
Pietrantoni e G. Prati (2009): il bullismo non coincide affatto con
l'aggressività, ma può essere considerato una tra le tante forme di
aggressività, con particolari caratteristiche. Esso,
infatti, è un ripetersi di eventi frequenti e che durano nel tempo, a
differenza del conflitto che è un evento che capita occasionalmente; nel
bullismo sia il bullo che la vittima percepiscono uno squilibrio di potere
spesso confermato dall'ambiente circostante; invece, nel conflitto, chi
partecipa si percepisce reciprocamente "alla pari", ognuno può
manifestare le proprie ragioni. Il bullo non ha empatia nè compassione e vuole
fare del male con intenzione; la persona presa di mira è sempre la stessa. Al
contrario, nel conflitto, è possibile mettersi nei panni dell'altro e quindi
mediare, trovare degli accordi; qualsiasi parte può interrompere la lite,
nessuno vuole fare del male intenzionalmente ed inoltre le persone in conflitto
possono cambiare.
Il
bullismo si manifesta principalmente in tre modalità:
·
tipo fisico:
aggressioni fisiche (calci, pugni, spintoni...), o danneggiamento/furto di
proprietà altrui;
·
tipo verbale:
insulti e derisioni dirette o indirette, tramite la diffusione di maldicenze;
·
tipo
psicologico: ossia tutte quelle azioni volte a colpire i
rapporti di amicizia della vittima con il fine di isolarla.
Per bullismo si intende, quindi,
un tipo di relazione fra un ragazzo e un proprio coetaneo (o un gruppo di
coetanei) caratterizzato da tre elementi (Fonzi, 2006):
1)
Asimmetria della relazione. Deve essere presente uno
squilibrio nel rapporto di forza tra un ragazzo (vittima) e uno o più ragazzi
(prepotente/i). Questo squilibrio può essere dovuto ad una diversa forza
fisica, ad un maggior prestigio sociale, familiare, intellettivo. Il più delle
volte si tratta di uno squilibrio che riguarda differenze nel carattere e nella
personalità che impediscono alla "vittima" di difendersi dai comportamenti di
prepotenza. Il bullismo è, quindi, prima ancora che un atto aggressivo, una
dinamica relazionale in cui un gruppo di studenti, ognuno con i rispettivi
ruoli, recita una specie di copione basato sulla distribuzione del potere.
2)
Intenzionalità.
Il ragazzo che si trova in una posizione di maggior forza rispetto al compagno
si avvale della propria superiorità per infliggere un danno al più debole
attraverso atti aggressivi intenzionali di varia natura. Nel caso del bullismo
può essere ricavata dal fatto che l'atto si ripeterà in futuro, proprio perché
è persistente. Non sempre quest'intenzionalità indica la piena consapevolezza
emotiva di ciò che si prova nell'altro: i meccanismi di disimpiego morale utilizzati
a propria difesa quando si tratta di giustificare le prevaricazioni compiute o
assistite o subite, fa sì che questi comportamenti siano, sì, intenzionali, ma
non sempre vengano pienamente voluti per ciò che significano nell'esperienza di
chi li riceve (Buccoliero & Maggi, 2005).
3)
Persistenza. Sebbene anche un singolo episodio vada considerato
come una forma di bullismo, è più opportuno parlare di bullismo quando questo
tipo di relazione persiste nel tempo. Inoltre risulta essere anche organizzato,
nel senso che l'aggressore pianifica l'azione con grande meticolosità.
Quando la dimensione di
discriminazione attiva e violenta avviene tra pari nel corso dell'infanzia e
dell'adolescenza ed è legata all'orientamento sessuale parliamo di "Bullismo
Omofobico" ; una forma di
abuso verbale o psichico diretto ad una persona, a causa del suo orientamento
sessuale o percepita sessualità. Può includere aggressione verbale, psichica e
relazionale così come l'uso di epiteti omofobici.
E' possibile riscontrare diverse
differenze sostanziali tra il bullismo classico ed il bullismo di matrice
omofobica. Quest'ultimo non attacca solo il soggetto in quanto tale o presunto
tale, ma si rivolge anche a una dimensione privata e personale come la propria
sessualità e identità di genere (Lingiardi, 2007). Inoltre, le differenze si
collegano alla presenza dell'omofobia nella cultura italiana e, a livello
interiorizzato, nelle persone coinvolte.
Il bullismo omofobico, si discosta dalle comuni forme di bullismo per
varie ragioni:
·
le
prepotenze chiamano sempre in causa una dimensione nucleare del Sé psicologico
e sessuale;
·
la
vittima può incontrare particolari difficoltà a chiedere aiuto agli adulti
perché teme di richiamare l'attenzione sulla propria sessualità con i relativi
vissuti di ansia e vergogna, e il timore di deludere le aspettative dei
genitori;
·
la
vittima può incontrare particolari difficoltà a individuare figure di sostegno
e protezione fra i pari, in quanto il numero dei potenziali "difensori della
vittima" si abbassa notevolmente nel caso del bullismo omofobico e questo
perché difendere un omosessuale comporterebbe il rischio di essere considerati
omosessuali.
Le più frequenti modalità con cui
il bullismo omofobico si manifesta sono quello diretto, attraverso offese, prese in giro di tipo omosessuale,
minacce fisiche di tipo omosessuale fino a forme ancora più gravi come la violenza
fisica di tipo omosessuale; il modo indiretto
tramite il quale si fanno circolare storie sulla presunta o reale
omosessualità della persona che è vittima.
Come sottolineato da Pietrantoni e Prati (Prati et
al 2010.), i target di bullismo omofobico possono essere:
·
Gli adolescenti che si definiscono
apertamente gay o lesbiche o che hanno optato per una divulgazione selezionata
e le cui informazioni sono state divulgate a terzi;
·
Gli adolescenti che sono percepiti come
gay;
·
Gli adolescenti con fratelli, sorelle o
genitori gay o lesbiche;
·
Gli adolescenti che hanno idee o
opinioni a favore dei diritti LGBT.
Numerosi, quindi, sono
gli atti di violenza sessuale e di bullismo omofobico che coinvolgono spesso
giovani e giovanissimi, sottolineando la cruciale importanza delle questioni
del genere e dell'orientamento sessuale nello sviluppo identitario.
L'omofobia può essere
descritta come uno spettro di fantasie, idee, sentimenti e credenze, consce e
inconsce, attraverso le quali un soggetto struttura un comportamento evitante e
avversativo rispetto a ciò che viene sentito come omosessuale. Lo psicologo G. Weinberg fu colui che introdusse per
primo il concetto, nel 1972 nel suo libro Society and the Healthy Homosexual.
Egli definì come "omofobia esterna" il timore e l'odio irrazionali
che gli eterosessuali provano nei confronti delle persone omosessuali, e come
"omofobia interna" l'atteggiamento di disprezzo che i gay provano nei
confronti di sè stessi. L'intento dello psicologo americano era quello di dimostrare
che se l'attrazione di un soggetto per una persona dello stesso sesso non è una
malattia mentale, potremmo invece considerare tale l'intolleranza verso
l'omosessualità.
Già dal 1974, infatti,
l'omosessualità fu cancellata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali (DSM) pubblicato dall'American Psychiatric Association (APA), in quanto
ritenuta "una variante naturale del comportamento sessuale umano".
Difatti, nella prima versione del 1952, essa risultava una condizione psicopatologica
tra i "Disturbi sociopatici di Personalità", nel 1968 rientrò nelle
deviazioni sessuali, come la pedofilia, trovando posto tra i "Disturbi
Mentali non Psicotici". Nel 1974 venne rimossa ma spuntò
l'"omosessualità egodistonica", ovvero quella condizione in cui una
persona omosessuale non accetta il proprio orientamento sessuale e non lo vive
con serenità, termine che sparì dal DSM nel 1987.
Nel 1991, l'American
Psychoanalityc Association ha approvato un documento in cui deplora ogni
discriminazione pubblica o privata nei confronti delle persone omosessuali.
Nonostante le evidenze, ancora oggi molte persone continuano a considerare
l'omosessualità una patologia, e a produrre comportamenti discriminatori delle
persone gay e lesbiche. Essere omosessuale, lesbica, bisessuale, transessuale
dovrebbe configurarsi unicamente come una tra le tante caratteristiche
dell'identità di una persona; tuttavia, sono molteplici gli atteggiamenti di
discriminazione nei confronti di coloro che si presentano
"differenti" sotto questo aspetto. Tali atti discriminatori, sono il
frutto di quello che, in termini scientifici, viene definito omofobia.
Omofobia deriva
dal greco homos (stesso,
medesimo) e fobos (paura). Letteralmente
significa "paura dello stesso", tuttavia il termine "omo" è
qui usato in riferimento ad omosessuale. Il significato originario è stato
duramente criticato poiché da un lato non ha nulla a che fare con una fobia, in
quanto i comportamenti non sono di evitamento e fuga ma caratterizzati da atti
ostili e violenti; dall'altro concentra sul singolo problematiche che hanno una
collocazione sociale, culturale e istituzionale. L'omofobia riguarda, pertanto,
il pregiudizio, la discriminazione o il razzismo piuttosto che la fobia in
senso clinico. Proprio per questo, molti autori (Ficarotto, 1990; Reiter, 1991)
suggeriscono di sostituire il termine «omofobia» con altre espressioni, al fine
di sottolineare le dimensioni sociali e culturali implicate e rimodulare lo
sbilanciamento clinico e a volte esclusivamente intrapsichico della prima
accezione. Il concetto di «omonegatività» è descritto in questa prospettiva
come un costrutto capace di interpretare comportamenti e affermazioni
comunemente considerati omofobici, non solo in termini di paura e imbarazzo, ma
anche come pregiudizio e discriminazione sociale. L'omonegatività, pertanto,
non si manifesta solo attraverso atteggiamenti e comportamenti individuali, ma
implica una molteplicità di livelli distinti (Blumenfeld et al., 2000): su un piano personale essa si manifesta come un
insieme di stereotipi, pregiudizi e prese di posizione individuali nei
confronti delle omosessualità, ad un livello interpersonale appare quando le persone traducono in
comportamenti i loro pregiudizi, in termini sociali si esprime attraverso i comuni stereotipi su gay e
lesbiche ed infine, da un punto di vista istituzionale,
l'omonegatività consiste nella discriminazione più o meno manifesta
presente in varie istituzioni quali famiglia, scuola, lavoro, stato.
L'omofobia è presente negli insulti,
nelle battute, nelle caricature e nel linguaggio comune. Essa presenta gay e
lesbiche come creature grottesche, oggetto di derisione. L'insulto rappresenta
la logica conseguenza dell'omofobia affettiva e cognitiva nella misura in cui,
come nota D. Eribon (1999), espressioni come "frocio di merda" o "lesbica
di merda" non sono espressioni dette così, senza pensarci, ma vere e
proprie aggressioni verbali che lasciano il segno.
L'omofobo, dunque, al
pari di razzisti, xenofobi, misogini ecc., si rifà ad un sistema codificato di
credenze che ritiene di dover difendere dalla minaccia di soggetti considerati
pericolosi. È a partire da queste
considerazioni che, nel 1993, G. Herek suggerisce l'utilizzo del termine
eterosessismo, per indicare <<un sistema ideologico che nega, denigra e
stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità non
eterosessuale>> (Hereck, 1993). L'eterosessismo
ha conseguenze per le persone omosessuali ancor più gravi dell'omonegatività,
in quanto non solo esprime un rifiuto dell'omosessualità, che per quanto
doloroso ne riconosce l'esistenza, ma, concependo l'eterosessualità come
l'unico orientamento sessuale possibile, implica una vera e propria negazione
delle persone omosessuali e della loro esistenza. L'eterosessismo è una forma
di pregiudizio che si sviluppa sin dall'infanzia, dal momento che la maggior
parte dei bambini cresce in contesti familiari, scolastici e sociali che, nel
migliore dei casi, considera l'omosessualità un argomento di cui non parlare o
su cui fare battute di spirito.
Una forma meno visibile e molto
complessa dell'omofobia è quella interiorizzata. «L'omofobia
interiorizzata non riguarda il sesso, ma la concezione di sé. Inizia a
svilupparsi prima di diventare consapevoli della propria sessualità. Incomincia
con la sensazione di essere diverso, di una diversità sbagliata e da tenere segreta.
Non è proprio come uno stigma razziale, etnico o di genere: in questi casi,
almeno sei come la tua famiglia (...) In una persona eterosessuale l'omofobia
può essere considerata un sintomo, ma in una persona omosessuale è qualcosa
che, in un modo radicale e profondo, dà forma alla tua identità e all'idea che
hai di te stesso» (Donald Moss, 2003, p. 197-223).
L'omofobia interiorizzata è l'altra faccia
dell'omofobia sociale, caratterizzata dall'insieme di sentimenti e
atteggiamenti negativi che una persona omosessuale può provare, più o meno
consapevolmente, nei confronti della propria e altrui omosessualità.
L'omofobia
interiorizzata, infatti, ha un impatto destabilizzante e patogeno sul
funzionamento psicologico degli omosessuali, in particolare sull'immagine di sé
e sulla percezione dell'autoefficacia (Pietrantoni, 1996).
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· Mónica Terrazo Felipe, Santiago de Ossorno García, Javier Martín Babarro, Rosario Martínez Arias (2011) "Caratteristiche sociali nei tipi di bullismo: scavando più in profondità nella descrizione del bullo-vittima"
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· Saccà F., Martelli M., Guarnieri A., Coppola M. (2010), Zaino in spalla! Manuale per operatrici e operatori sui temi dell'educazione alle differenze e il bullismo omofobico a scuola. Bologna.
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