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La Regola del Linguaggio

di Alessandra Ricciardi Serafino de Conciliis

Il counselling psicologico è una possibilità che viene offerta agli studenti con disabilità iscritti ai Servizi di Tutorato Specializzato (STS) della Università Federico II per favorire i processi di inclusione e promuovere la loro partecipazione attiva. Il counselling psicologico a orientamento psicodinamico per studenti universitari è un modello di intervento breve che mira ad aiutare le persona a gestire una condizione problematica o di crisi evolutiva dando maggiore consapevolezza alle problematiche emozionali sottostanti alla situazione. Il ruolo del terapeuta è quello di favorire l'emergere di pensieri, idee, emozioni e metterle in relazione con la fase di stallo che lo studente vive e che gli impedisce di fare una scelta o di sentire di avere un certo grado di padronanza sulla propria vita. La possibilità di fare questo è offerta dalla capacità del terapeuta di osservare le dinamiche di transfert e controtransfert che si attivano nello spazio e nel tempo della consultazione, e dalla capacità di usare tali osservazioni per offrire un nuovo vertice di significazione delle problematiche portate in consultazione in termini di fattori personali che facilitano o ostacolano la risoluzione della crisi. In questo modo, nel vivo del colloquio, la coppia terapeuta-studente ha la possibilità di rileggere la situazione di impasse alla luce di nuove consapevolezze, aprendo così lo spazio a nuovi pensieri e a nuovi scenari. È necessario che il terapeuta sappia essere attivo per promuovere la capacità di riflessione e offrire occasioni di insight senza però essere direttivo o sovrastare l'altro proponendo le proprie soluzioni.
Le regole dell'intervento, tecnicamente chiamate setting, sono: quattro incontri vis à vis con frequenza settimanale della durata di 45 minuti. L'assetto iniziale del terapeuta è quello di lasciare spazio e tempo allo studente per la definizione di sé e delle sue problematiche. L'osservazione di tutto ciò che accade è il primo atto clinico di ogni intervento di counselling, la lettura del proprio vissuto in relazione all'altro è il secondo dispositivo utilizzato per orientare l'azione clinica. Per fare tutto ciò è evidente che la parola, la comunicazione, verbale e non verbale, l'interazione interpersonale siano i binari sui i quali scorre l'intervento.
Ci sono però condizioni di salute che impediscono la capacità di comunicare e di interagire così come è comunemente intesa. Ci sono situazioni, abbastanza frequenti, in cui per qualche motivo a essere compromesso è solo un aspetto della comunicazione umana, come la capacità di udire o la possibilità di avere una mimica facciale. Esistono anche condizioni di salute molto più complesse in cui la capacità di comunicare spontaneamente è impossibilitata, mi riferisco a quelle condizioni in cui la comunicazione può essere stabilita solo con l'uso di facilitatori come il computer, situazioni in cui la persona, senza l'uso di specifici ausilî, può esprimere solo la sua approvazione o disapprovazione su specifiche questioni. In questi casi realizzare un intervento di counselling tipico è impossibile. Ciò non vuol dire, però, che a questi studenti non possa essere offerto un intervento psicologico creato su misura e che abbia le stesse finalità dell'intervento di counselling psicologico che di solito viene offerto a tutti gli studenti.
Una regola fondamentale di tutti i colloqui psicologici è la seguente: in linea di massima il linguaggio che si adopera durante il colloquio è quello del paziente. Questo vuol dire che il terapeuta deve saper adattare il proprio modo di parlare alle modalità comunicative dell'altro. È una regola del setting semplice e banale, che solitamente non pone alcun problema al terapeuta, e che permette di stabilire un ambiente che l'altro sente rassicurante e rispettoso del proprio essere e nel quale è più semplice costruire una buona relazione. La stessa regola, però, ha un effetto completamente diverso sul terapeuta e sul setting quando la persona che si rivolge a noi ha difficoltà nella comunicazione. Se, infatti, come abbiamo detto, l'incontro si costruisce usando il linguaggio dell'altro, nello spazio del counselling devono entrare tutti gli strumenti informatici e no che rendono possibile la comunicazione. È necessario, in questi tipi di interventi, che il terapeuta sappia mettere da parte ogni regola precostituita dell'intervento tipico e dar vita all'interazione e alla comunicazione possibile. Questo significa che il terapeuta deve accedere a una dimensione non strutturata per realizzare l'incontro, deve calibrare gli incontri sulle possibilità dell'altro, tenuto conto che sono molto diverse dal solito e noto modo di procedere.
Mi è capitato, ad esempio, che una studentessa sorda avesse chiesto di poter fare i colloqui con il proprio interprete LIS. Una richiesta che in un primo momento ho sentito assurda e ricattatoria, infatti se non avessi accettato l'interprete non sarebbe venuta, anche se riferiva di essere in una condizione di necessità e di disagio. La studentessa per contattarmi non aveva utilizzato la mail o un messaggio di testo sul telefono, ma, utilizzando un servizio di mediazione comunicativa offerto da una associazione al servizio delle persone sorde, aveva fatto la sua richiesta telefonicamente chiedendomi della mia conoscenza della lingua dei segni. Aveva cioè utilizzato il canale classico di comunicazione di prenotazione, servendosene alla sua maniera. In effetti quella richiesta mi faceva sentire in difetto non potendole offrire un incontro che utilizzava la lingua dei segni e quindi mi trovavo in una situazione in cui non avrei potuto utilizzare il linguaggio dell'altro. Dopo aver riflettuto sulle possibili scelte, comunicai alla studentessa che poteva venire insieme al suo interprete. Accettare questa condizione significò lavorare nel primo colloquio principalmente sulle modalità relazionale che la studentessa mi stava chiedendo al di là delle comunicazioni esplicite che poteva fare. Nel primo colloquio riuscimmo a cogliere e a rendere manifesto il bisogno sottostante e inconscio alla sua richiesta esplicita, tanto che la studentessa dopo questo primo incontro non ebbe più bisogno della presenza dell'interprete per realizzare il percorso di counselling, ma riuscimmo a lavorare aiutandoci in alcuni casi con l'ausilio di carta e panna. Ovviamente carta e penna non potevano vicariare tutte le sfumature della comunicazione che la componente paraverbale consente, così come ho dovuto fare i conti con la necessità di mantenere una postura più rigida che facilitasse la lettura del labiale, e ho dovuto tollerare che l'attenzione dell'altra persona fosse tutta convogliata sulle mie labbra. Per impedire che tutte queste novità fossero un ostacolo alla realizzazione di un buon incontro è stato necessario monitorare le mie sensazioni e riflettere dopo ogni colloquio sul mio vissuto controtransferale, tenendo in considerazione anche quanto la nuova esperienza mi aveva allontanato dal mio modo tipico di condurre i colloqui di counselling.
In questi anni di lavoro con gli studenti con disabilità ho imparato a essere sempre più flessibile e meno preoccupata delle regole della tecnica, mentre ho sentito sempre più l'esigenza di radicarmi, all'interno dell'orientamento psicodinamico, ai diversi filoni di ricerca che hanno apportato significativi ampliamenti alla teoria psicoanalitica. Solo in questo modo mi è stato possibile rispondere a una richiesta di counselling psicologico che mi veniva fatta da uno studente il quale, non potendo più utilizzare il proprio corpo, né la propria voce, riusciva a comunicare molto lentamente solo attraverso l'ausilio di un computer e di una tastiera speciale, appositamente costruita, comandata attraverso le capacità residue di movimento di un unico arto. Un incontro impossibile a un primo sguardo, un incontro diventato possibile perché realizzato al di fuori di ogni logica. In questo caso sono entrata in relazione con l'altro esplicitando la mia difficoltà nel realizzare l'incontro, dichiarando che avremmo costruito insieme i nostri incontri, non sapendo se sarei riuscita a essergli realmente di aiuto. Ma al tempo stesso dichiarando la mia disponibilità a lavorare con lui. Abbiamo realizzato tre incontri della durata di 90 minuti ciascuno, un tempo infinito per uno psicologo, ma era il tempo necessario perché io e lo studente potessimo comunicare utilizzando i suoi ausilî e rispettando il suo linguaggio. Sono state tre settimane in cui non ho mai smesso di tenere a mente questo studente, in cui tra un incontro e l'altro cercavo di ripercorrere le nostre interazioni per poter cogliere significati che nella fatica del colloquio mi erano sfuggiti. Sono stati tre incontri in cui le comunicazioni avevano una lentezza per me spaventosa e che mentre accadeva mi impediva di pensare e tenere a mente lo scorrere del colloquio. Importante è stato non cedere al dolore che una simile condizione evoca e anche all'idea che pensare era inutile. Pensare è stato doloroso sia per me che per lo studente, ma quando lo studente ha deciso al terzo colloquio di terminare il percorso mi ha ringraziato perché ha avuto la possibilità di comunicare il suo terrore e di poter ritornare a vivere, questa volta pensando meno.

 
 

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