A cura di Cristiano Scandurra
L'identità
di genere va intesa quale senso intimo, profondo e soggettivo di
appartenenza ad un sesso e non all'altro. Stoller (1968), uno dei pionieri
nell'ambito degli studi sui transgenderismi, verificò che già a 3 anni i
bambini sono in grado di identificarsi con il sesso maschile o femminile e che
non è possibile modificare l'identità di genere una volta che essa si sia
stabilita. L'identità di genere, però, non va considerata come binaria o
dicotomica. Esistono diverse sfumature identitarie. Alcune persone, ad esempio,
percepiscono di non appartenere strettamente a nessuno dei due sessi biologici.
L'identità di genere, infatti, può essere o meno congruente al sesso assegnato
alla nascita, assegnazione che, in realtà, si basa sulla sola apparenza dei
genitali esterni. Alcune identità di genere risultano 'non conformi' alle norme
culturali e prescrittive che esitano nel binarismo di genere, ovvero quel
dispositivo socio-culturale che impone l'esistenza di due generi soltanto,
maschile e femminile. Questa discordanza può causare confusione, sofferenza e
un conseguente desiderio di adeguare il proprio corpo all'immagine che si ha di
sé stessi.
Solitamente si utilizza
il termine transgender per riferirsi
a quel gruppo diversificato di persone la cui identità di genere non è
totalmente allineata al sesso assegnato alla nascita (APA, 2015). Questo gruppo
include, tra le altre, le persone transessuali
MtF (male to female) o FtM (female to male), che necessitano di
sottoporsi a terapie ormonali e/o chirurgiche per femminilizzare o
mascolinizzare il proprio corpo e poter vivere a tempo pieno nel genere di
identificazione; i o le cross-dressers,
che desiderano indossare abiti del sesso opposto a quello loro assegnato; le
persone bigender, che si identificano
sia con il genere maschile che femminile; infine, le drag queens ed i drag kings,
che indossano abiti del sesso opposto a quello loro assegnato, adottando
atteggiamenti iperfemminili o ipermaschili. Più recentemente, per indicare
queste identità fluide rispetto alle cristallizzazioni binarie del genere
maschile e femminile, si sta utilizzando il termine gender variance, ovvero varianza di genere (IOM, 2011).
Allo stato attuale, e a seguito di importanti dibattiti scientifici, le persone transgender, per accedere al percorso di transizione finalizzato all'adeguamento delle proprie caratteristiche fisiche all'identità di genere percepita, devono ottenere una diagnosi psichiatrica. La diagnosi relativa alle identità di genere non conformi ha una storia relativamente recente, che comincia nel 1980, precisamente con la terza edizione del DSM (APA, 1980). In questa edizione del manuale, si utilizzava l'etichetta diagnostica di «Transessualismo». La revisione della terza edizione del DSM (APA, 1987) comportò notevoli modifiche. Il transessualismo venne collocato nel capitolo dei «Disturbi Solitamente Diagnosticati per la Prima Volta nell'Infanzia, nella Fanciullezza e nell'Adolescenza». Nello specifico, si annoveravano le seguenti diagnosi: «Transessualismo», «Disturbo dell'Identità di Genere nell'Adolescenza e nell'Età Adulta - Tipo Non-Transessuale» (GIDAANT) e «Feticismo da Travestitismo». Nella quarta edizione del DSM (APA, 1994), così come nella sua revisione (APA, 2000), il transessualismo viene incorporato nei «Disturbi dell'Identità di Genere» (DIG). Attualmente, con la pubblicazione della quinta edizione del DSM (APA, 2013), non si parla più di DIG, ma di «Disforia di Genere». Sebbene le modifiche riportate nel DSM-5 abbiano fatto piccoli passi verso la depatologizzazione (Zucker et al., 2013), realisticamente le identità di genere non conformi al sesso assegnato alla nascita ancora oggi sono considerate da una prospettiva patologizzante. Tutte le voci esterne (Vance et al., 2009) che premevano affinché con la pubblicazione del DSM-5 questa condizione identitaria fosse depatologizzata sono state considerate dalla psichiatria solo fino ad un certo punto. La diagnosi è, infatti, rimasta e, con essa, le problematiche etiche che comporta. Ancora oggi sussistono una serie di tecniche terapeutiche che si proporrebbero di modificare l'identità di genere del cliente. Si tratta delle cosiddette terapie riparative, finalizzate a far "rientrare" la disforia. Queste terapie sono bandite dai codici deontologici degli operatori della salute mentale perché ritenute dannose per il benessere psico-fisico delle persone che vi si sottopongono. Piuttosto, oggi si tende ad utilizzare un approccio affermativo, sostenendo l'espressione di genere più congruente al soggettivo sentire.
Le persone transgender vivono livelli sproporzianti di soprusi, aggressioni ed insulti. Ad esempio, Balzer e Hutta (2012), all'interno del progetto Transrespect versus Transphobia Worldwide, riportano che tra Gennaio 2008 e Dicembre 2011 sono state uccise ben 831 persone transgender in tutto il mondo a causa della transfobia sociale. Ancora, uno studio europeo di Turner et al. (2009) riporta, invece, che tra 2669 persone transgender, il 79% di esse ha subito qualche forma di molestia sessuale e/o verbale nel corso della propria vita. Queste violenze sembrano avere delle importanti ripercussioni sulla salute psico-fisica delle persone transgender, fino ad arrivare ad aumentare il rischio di attuare condotte suicidiarie (ad es., Bockting et al., 2013; Clements-Nolle et al., 2006). In realtà, sembra che la transfobia sociale abbia origini ancora più lontane. Spesso, quando i genitori percepiscono la non conformità di genere dei propri figli, ne rimangono profondamente colpiti e possono mettere in atto una serie di difese atte a denegarla e a rifiutarla. Alcuni studi, infatti, riportano che i fratelli non transgender riescono a ricevere un supporto di gran lunga maggiore rispetto ai fratelli transgender (Factor & Rothblum, 2007), che gli agenti della violenza spesso sono il padre e la madre (Gerini et al., 2009) e che spesso questi bambini subiscono delle dure punizioni che possono giungere fino all'esser cacciati di casa (Gagne & Tewksbury, 1998). Le discriminazioni subite dalle persone transgender sono molto elevate anche in ambito lavorativo. Si è soliti pensare, in maniera molto stereotipata, che le persone transessuali siano dedite alla prostituzione. Questo grosso stereotipo tende ad inglobare in una macro-etichetta tutte le persone che presentano una disforia di genere o una non conformità di genere, senza tenere conto delle infinite possibilità di identificazione del genere. A partire da questi dati così allarmanti, Kidd e Witten (2008) sostengono che tale violenza deriva dall'azione, spesso congiunta, di 4 fattori: 1) L'ignoranza del pubblico generale che non è davvero a conoscenza del significato delle identità transgender, evidenza deducibile, ad esempio, dal linguaggio omofobico piuttosto che transfobico utilizzato per offendere e "violentare" queste persone; 2) I bias istituzionalizzati derivanti dalla produzione di un sapere scorretto da parte delle istituzioni sulle questioni sessuali e di genere (pensiamo, ad esempio, ai corsi di biologia in cui si insegna che i sessi sono solo due, lasciando fuori la questione dell'intersessualità); 3) La marginalizzazione da parte dei sistemi sanitari che non sono sufficientemente preparati ad accogliere le specifiche domande delle persone transgender; 4) La preservazione del binarismo di genere, un potente dispositivo ideologico che tende a "punire" i trasgressori, coloro che mettono in crisi questa pericolosa credenza, con lo scopo di rimettere le cose al loro posto. Le considerazioni di Kidd e Witten non ci aiutano, però, a comprendere profondamente quali sono le dimensioni di ciò che Hill (2003) definisce violenza anti-transgender. Secondo Hill, la violenza anti-transgender è costituita dall'intreccio di tre dimensioni tra loro interdipendenti: 1) il genderismo, ovvero un'ideologia strutturale che, dentro ognuno di noi, spinge a valutare in maniera fortemente negativa ogni comportamento, atteggiamento, istituzione che non si rifà alla logica del binarismo di genere. La credenza di base - errata naturalmente - è che esistano solo due generi e che tutto ciò che da loro si discosta è fortemente malato, disturbato, perverso; 2) la transfobia che, molto similmente all'omofobia, è quella forza che motiva le reazioni negative verso la non conformità di genere. In qualche modo, la transfobia è la controparte individuale, intrapsichica ed interpsichica del genderismo, tanto che viene definita quale "disgusto emozionale provato verso le persone che non risultano conformi alle aspettative sociali legate al genere" (Hill & Willoghby, 2005, p. 533); infine, 3) il gender-bashing, ovvero la componente più comportamentale della violenza anti-transgender. Esso indica, infatti, la violenza agita, il pestaggio individuale e gruppale. Ricapitolando, Hill (2003, p. 10) riassume come segue la relazione tra queste tre dimensioni: "Il genderismo riguarda l'atteggiamento culturale negativo, la transfobia alimenta l'atteggiamento con la paura, il disgusto e l'odio, e il gender bashing è l'espressione violenta di queste credenze. Sebbene genderismo e transfobia spesso esitano in espressioni nascoste di discriminazione ed antipatia, il gender bashing è un espressione manifesta di ostilità".
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