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Prigionia dello stigma: la storia di Zaìra


A cura di Cecilia Montella

Lo scorso anno (2017/2018) ho lavorato come operatrice sociale presso il campo Rom di Via Cupa Perillo, nel quartiere di Scampia. Ho fatto parte di un progetto durato 9 mesi, finanziato dal Comune di Napoli, che aveva come obiettivo l’inclusione dei bambini Rom e Sinti all’interno dei contesti scolastici presenti sul territorio. Il progetto mirava, poi, all’inclusione sociale delle famiglie Rom in senso ampio, infatti io e i miei colleghi ci siamo occupati di mediare e facilitare le relazioni tra le famiglie e le diverse istituzioni presenti nel quartiere (ASL, Servizi Sociali, centri di aggregazione). All’interno del nostro team era presente anche un’operatrice Rom con funzione di mediazione, grazie alla quale siamo riusciti a stabilire un clima di fiducia reciproca con gli abitanti del campo. Il progetto prevedeva che alcuni operatori svolgessero azioni di sensibilizzazione e mediazione al campo, e che altri operatori facilitassero il processo di inclusione all’interno delle classi, coadiuvando gli insegnanti presenti. Oltre le attività didattiche, venivano svolte delle ore di laboratorio, grazie alla presenza di due operatori esperti.
All’interno di tale esperienza ho avuto modo di conoscere la storia di una giovane donna di 17 anni, la chiamerò Zaìra, che mi ha permesso di prendere consapevolezza del dolore che uno stigma multiplo può generare e della forza con cui esso può distruggere l’individualità, i sogni e le speranze di vita di una persona.
Zaìra viveva in una baracca del campo insieme alla sua numerosa famiglia. Mi sono trovata a frequentare spesso la sua baracca a causa di una delle sorelline, perennemente presente sull’elenco dei bambini che non frequentavano la scuola; andavo a casa sua insieme ad alcuni colleghi quasi tutti i giorni, per sensibilizzare la famiglia rispetto alla frequenza scolastica dei bambini. Poiché i suoi genitori non erano quasi mai presenti, mi trovavo spesso a parlare con lei, che era la più grande in casa. La ragazza cominciò ben presto ad aspettarmi tutti i giorni per la nostra chiacchierata, mi preparava il caffè e metteva i fratellini a cui badava a guardare la TV, per poter avere un momento da sola con me. Zaìra era una ragazza molto curata, magra e slanciata, con lunghi capelli lisci e ramati. Come una tipica ragazza di quell’età, mi parlava spesso dell’amore, e del fatto che avrebbe voluto innamorarsi: guardava ogni giorno su Facebook le immagini di altri ragazzi, e mi chiedeva un parere sul loro aspetto; mi considerava a tutti gli effetti un’amica. Un giorno mi confidò che sarebbe voluta diventare parrucchiera o estetista, ma che la tradizione Rom non glielo avrebbe permesso perché per le donne non era possibile lavorare. Un’altra volta, invece, mi disse che forse avrebbe voluto fidanzarsi con un ragazzo italiano, ma neanche ciò sarebbe stato possibile, perché suo marito sarebbe stato Rom e sarebbe stato scelto dai suoi genitori.
Era ingabbiata, intrappolata in una cultura che non le permetteva di essere se stessa, di desiderare e di autodeterminarsi. Eppure lei viveva desiderosa e sorridente, nell’attesa di qualcosa o di qualcuno. Spesso ho provato a seminare piccoli messaggi di speranza durante le nostre chiacchiere, perché sentivo che qualcosa in lei si muoveva; se non altro, notai che questa ragazza a differenza delle altre che avevo conosciuto portava ancora con lei la capacità di desiderare. Avvertivo forte la sua volontà di evadere da quella realtà e di cercare altro, di scegliere per sé e di realizzare i suoi sogni. Così provai a contattare alcune istituzioni del territorio, ma tutti mi risposero che finché la ragazza avrebbe continuato a vivere in quella casa, con quella famiglia, non sarebbe stato possibile aiutarla in alcun modo, poiché qualsiasi tipo di intervento avrebbe determinato una frattura irreversibile tra lei e i suoi familiari.
Venni un giorno a sapere il motivo per cui Zaìra a quasi 18 anni, un’età abbastanza avanzata, non fosse stata ancora ceduta ad alcun marito. La mia collega Rom mi spiegò che qualche anno prima la ragazza era fuggita dal campo insieme ad alcuni amici e aveva trascorso la notte fuori, rientrando nella baracca solo al mattino presto. A seguito di quest’evento, Zaìra aveva subìto punizioni fisiche estremamente violente, e, ancor peggio, si era insinuato il dubbio tra le altre persone della comunità circa la sua verginità. Da allora la ragazza era divenuta vittima di uno stigma potentissimo che proveniva dai suoi stessi familiari e dalla sua stessa comunità. Nessuno avrebbe voluto una ragazza così irriverente e disobbediente ma, soprattutto, nessuno avrebbe voluto una ragazza dalla dubbia verginità.
Dopo circa 5 mesi dall’inizio del mio lavoro, però, accadde un giorno che Zaìra fu chiesta in sposa da una famiglia che viveva per quel periodo nell’Auditorium di Scampia. Durante il periodo di trattativa, ebbi modo di parlare fugacemente con la ragazza (poiché era presente in casa anche la madre) per chiederle cosa ne pensasse della proposta; lei mi disse che era contenta, anche se dai suoi occhi traspariva tutt’altro. Colsi amarezza e paura nel suo sguardo, timore di restare sola (perché il padre non subito si mostrò propenso ad accettare l’accordo), ma anche timore di essere affidata ad una famiglia di sconosciuti. Zaìra infatti conosceva solo di vista il ragazzo che sarebbe diventato suo marito e non sapeva realmente nulla di lui. Poiché in quel periodo io e i miei colleghi lavoravamo anche all’Auditorium di Scampia, mi trovai ad incontrare il promesso sposo di Zaìra. Era un ragazzo minuto, con lo sguardo dolce e un po’ impaurito: mi sembrò da subito differente rispetto ai suoi coetanei muscolosi e spavaldi. Ricordo che provai subito molta tenerezza per lui e pensai che forse stava per accadere il male minore per entrambi. Gli dissi che conoscevo Zaìra, e lui mi rispose che era molto contento che i suoi genitori avessero scelto lei, perché era una bellissima ragazza. Quando tornai al campo dissi a Zaìra che avevo conosciuto il suo promesso e lei volle subito un parere da parte mia. Le dissi che mi era sembrato un ragazzo molto dolce e che ovviamente mi auguravo il meglio per lei. Mi comunicò che l’accordo era stato preso, e che quindi di lì a qualche giorno si sarebbero sposati; parlava sorridendo, ma con tono basso e occhi lucidi. Mi espresse la sua enorme paura rispetto al primo rapporto: mi chiese se si sarebbe fatta male e cosa avrebbe provato. Cercai di tranquillizzarla, anche se avvertivo un forte senso di fallimento e di impotenza; inoltre mi domandavo cosa sarebbe accaduto se, disgraziatamente, Zaìra non avesse perso sangue. Le ragazze che non sanguinavano a seguito del primo rapporto, mi spiegò la mia collega Rom, spesso venivano sottoposte a forme di umiliazione pubblica molto gravi: poteva accadere che venissero costrette a uscire nude dalla camera, esposte agli sguardi di disprezzo ed agli insulti violenti dei parenti; in alcune occasioni, potevano essere perfino allontanate da casa, costrette poi al vagabondaggio ed alla prostituzione.
Trascorsero alcuni giorni in cui non incontrai Zaìra; ero preoccupata per lei, mi domandavo dove fosse e al campo sembrava che nessuno sapesse nulla. Dopo circa una settimana la rividi, per la prima volta fuori dal campo; fu lei a chiamarmi, sorridente e a gran voce. Era in compagnia della cognata e stavano andando insieme dall’estetista. Le chiesi allora come fosse andato il matrimonio e lei, ridendo, mi disse che era andato tutto bene e che “era vergine”. Sorrideva con quel sorriso amaro che già conoscevo, quel sorriso che nasconde qualcosa che si vorrebbe dire ma che non si può nemmeno pensare. Mi disse che stava vivendo nell’Auditorium, insieme alla famiglia del marito, e mi chiese di andare a trovarla qualche volta.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno andai in Auditorium insieme ad un mio collega per farle gli auguri. La trovai insieme alle altre donne della famiglia con una bimba neonata in braccio, figlia di una delle cognate; dopo averle fatto gli auguri parlammo un po’ e lei mi disse che la madre avrebbe dovuto organizzarle una festa ma che non si era fatta più né vedere e né sentire, quindi non se ne sarebbe fatto più nulla probabilmente. Nella nostra chiacchierata intervenne il suocero: voleva sapere io chi fossi e perché stessi parlando con la ragazza; mi disse poi che avrebbero organizzato loro una festa per il diciottesimo della nuora e che sicuramente saremmo stati invitati anche noi. Capii che dovevo andar via, e che non mi era più possibile parlare con la ragazza.
Dopo qualche giorno l’Auditorium fu sgomberato e le famiglie che vivevano lì si dispersero. Seppi dalla sorella più grande che Zaìra si era trasferita con la famiglia del marito in un campo a Mondragone. Da allora non l’ho mai più vista e né ho avuto più notizie di lei. Porto nel cuore e nella mente la castrazione che ha dovuto subire questa ragazza in termini di ideali, desideri e sogni. Il suo ruolo di genere, in una comunità in cui vige l’adesione ad una cultura fortemente patriarcale, si è sovrapposto alla sua identità etnica, in una cultura che disprezza i Rom, ultimi fra gli ultimi.
Questo doppio stigma non ha permesso a Zaìra di incontrare all’esterno qualcosa di buono, qualcosa di sano o, più semplicemente, qualcuno che facesse il tifo per lei. Ho dovuto fare anche io i conti con l’impotenza di trovarmi di fronte ad un destino già segnato, ad una persona priva di risorse a cui aggrapparsi per cominciare finalmente a vivere.
Questa storia, come immagino traspaia dalle mie parole, mi ha lasciato l’amaro in bocca, la delusione di non essere riuscita a fare nulla ma, allo stesso tempo, la consapevolezza di quanto sia importante intervenire precocemente a livello educativo e sociale, affinché i differenti contesti possano permettere a tutte e tutti, nessuno escluso, di fiorire.

 

 

 

 
 

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