A
cura di Camilla Esposito
È
sotto gli occhi di tutti come i cosiddetti nativi digitali, ossia la
generazione del XXI secolo, mostrino una fervente cyber-curiosità, un intimo
rapporto con computer, Rete, Tv e videogiochi.
Tra zero e dodici anni i bambini
fruiscono in maniera diretta, e in maniera sempre più precoce, di schermi
interattivi digitali, consolle per videogiochi, cellulari, computer,
navigazione in Internet. Vivono, inoltre, in un ambiente in cui i media sono
sempre più presenti, mentre le esperienze di intrattenimento e formazione
(basti pensare alla didattica in era Covid-19) spesso avvengono tramite la Rete
e i dispositivi digitali.
Il
gioco, strumento fondamentale di conoscenza e sperimentazione durante
l’infanzia, viene reso privo di valore, curiosità e fantasia da percorsi ludici
preimpostate e predeterminati come quelli proposti dai videogiochi.
Guardando
all’impatto economico dei videogiochi, che per volumi ed introiti supera, oggi,
ogni altro settore dell’industria culturale (Nichols, 2014), si può immaginare
la pervasività degli stessi, entrati nella quotidianità degli utenti come prima
era stato per i media più tradizionali (televisione, radio, discografia,
cinema, ecc).
Viene
da chiedersi, allora, come questi strumenti così diffusi e impattanti, che
impongono rappresentazioni predeterminate minando lo sviluppo di una fervida
fantasia, concorrono nell’affermazione di modelli di genere.
Negli
anni Sessanta del secolo scorso per la prima volta si è deciso di analizzare le
immagini mediatiche proposte (Azzalini, 2010), passando al vaglio immagini
pubblicitarie, cinematografiche e televisive, agendo per la prima volta una
posizione attiva rispetto a immagini introiettate e accolte, fino a quel
momento, solo ed esclusivamente in maniera passiva e inerte. Questo tipo di
analisi non è ancora avvenuta, in maniera sistematica, per il videogioco.
Assente
nel dibattito internazionale e assunto nel ruolo di puro divertissement,
le rappresentazioni da esso veicolate sono state lasciate libere di proliferare
indisturbate al di fuori del dibattito culturale.
Una
prima questione da mettere a fuoco riguarda il fatto che l’industria
videoludica vede una composizione prettamente maschile, nella produzione come
nel consumo (Chess & Shaw, 2015): un prodotto fatto da uomini e destinato
principalmente a giovani uomini, che propone una visione dei generi
monoprospettica.
Solitamente i personaggi maschili dei videogiochi sono bianchi
ed eterosessuali, pur riscontrando un orizzonte più variegato in termini di
caratteristiche fisiche e biografiche, così come in relazione alle abilità del
personaggio. Di contro, i personaggi femminili, largamente assenti dai
videogiochi, quando presenti sono destinati a ruoli secondari, passivi, lontani
dall’azione, privi di qualsivoglia potere e autonomia.
Le due principali
rappresentazioni dei personaggi femminili all’interno dell’universo videoludico
sono quella della principessa da salvare e quella della donna iper-sessualizzata,
attiva nella storia del videogame, vestita in maniera attillata, conforme a
precisi canoni fisici e di bellezza. Un esempio di quest’ultimo personaggio può
essere rappresentato da Lara Croft, conosciuta anche come Tomb Raider, che fa
la sua comparsa nel 1997. Archeologa avventuriera, il personaggio di Lara Croft
può essere considerata il prototipo della iper-sessualizzazione dei personaggi
femminili nei videogame, uno dei personaggi più conosciuti tra i “corpi in
movimento”, come definiti da Cosenza e Menghelli (2010), perché partecipi
all’azione, agli scontri, alla narrazione, solitamente appannaggio dei
personaggi maschili.
Quando
il personaggio femminile non è attivo nell’azione e nella narrazione, assurge
al ruolo di mero trofeo da ottenere, dunque fondamentale a dare un senso
all’avventura, ma senza alcun controllo sul proprio destino.
Dunque,
l’universo videoludico pare muoversi in una continua riproduzione di quella
dicotomia soggetto (attivo) ed oggetto (passivo) che da sempre ha caratterizzato
la relazione tra i generi. Esso contribuisce alla costruzione di immagini
stereotipiche che non lasciano posto, in un tempo e in uno spazio sempre più
riempiti dagli schermi delle consolle di videogiochi, delle Tv, dei computer,
alla pluralità propria della realtà sociale.
FONTI:
Chess,
S., & Shaw, A. (2015), A conspiracy of fishes, or, how we learned to stop worrying
about# gamergate and embrace hegemonic masculinity. Journal of Broadcasting
& Electronic Media, 59(1), 208-220.
Chirchiano
E. & Tuselli A. (2016), Che genere di videogame? Le rappresentazioni di
genere nell’universo videoludico, H-ermes. Journal of Communication, 7
(2016), 295-320.
Cosenza,
G. & Menghelli, A. (2010), “Corpi in gioco”. Paper presentato durante il Convegno
“Faregame 2010”, Cineteca di Bologna, Bologna, Italia
http://www.cinetecadibologna.it/fargame2010/ev/far_games_convegno/29maggio
Nichols,
R. (2014), The video game business, British Film Institute, London.