A cura di Camilla Esposito
Negli anni Settanta, in Italia
essere trans voleva dire: prostituzione come unica possibilità di
sostentamento, il rischio di essere arrestati durante le numerose retate della
polizia per l'espressione non conforme al proprio sesso biologico, una
repressione continua da parte della società, e delle istituzioni.
La
storia del movimento transgender in Italia inizia ufficialmente nel 1979 a
Milano, quando per la prima volta un gruppo di donne protestò in un’affollata
piscina pubblica, indossando un costume maschile e restando così a seno nudo,
sfidando l’opinione pubblica, l’autorità, ma soprattutto uno Stato che non le
considerava uomini a tutti gli effetti. La protesta si estese a numerose città
italiane, facendosi eco attraverso i mass media e arrivando fino alle sedi
parlamentari. Intorno al MIT, Movimento Identità Transessuale, si raccolse un
folto movimento spontaneo organizzato dal Partito Radicale, nel tentativo di
far approvare in Italia una legge simile a quella varata negli stessi anni in
Germania.
Quest'ultima, la Legge 10 settembre 1980, I, n. 1654, prevedeva un
percorso in due tappe, definite tecnicamente “soluzioni” (“losung”). La prima,
la “piccola soluzione”, comportava, in maniera del tutto svincolata da
interventi chirurgici ed attraverso semplici meccanismi di tipo amministrativo,
la riattribuzione di un nome confacente alle aspettative della persona, ma non
al suo sesso anagrafico. La seconda, la “grande soluzione”, era una facoltativa
estensione della prima, vincolata all’intervento ricostruttivo dei genitali e
arrecante la riattribuzione sia del nome che del sesso anagrafico. Nel nostro
Paese il disegno di legge ha visto un lungo iter che ha portato ad una
soluzione di compromesso, quella che è la legge 14 aprile 1982 n. 164. La
legge, ancora oggi in vigore per il percorso di transizione delle persone
trans, prevede l'accertamento psicologico della disforia di genere, il percorso
di TOS, Terapia Ormonale Sostitutiva, l'intervento di riassegnazione chirurgica
del sesso a livello degli organi genitali primari, e, solo alla fine, la
possibilità del cambio anagrafico. Si tratta, evidentemente, di un percorso che
tende a normalizzare i corpi, o i nomi, dunque le identità.
Un percorso che
rimette sul “binario giusto”, quello di uomo o donna nell'ottica di un rigido
binarismo di genere. Solo recentemente, qualcosa si è mosso con le sentenze
della Corte di Cassazione n. 15138 del 2015 e
della Corte Costituzionale n. 221, che hanno concesso la rettifica all'anagrafe
anche in assenza dell'intervento di riassegnazione chirurgica del sesso.
La
questione del cambio anagrafico è molto complessa: se a contare è quello che
esplicita la carta d'identità, per lo Stato sei un maschio come reca il tuo
documento, anche se il tuo aspetto è femminile. Ciò si traduce in difficoltà
legate alla ricerca di un lavoro o all’inclusione sociale, fino al rischio per
alcune persone trans, specialmente quelle immigrate, di vivere ai margini della
società.
Ma cosa
succederebbe qualora dovessero finire in carcere? Verrebbero assegnate in base
al sesso dei documenti, con ovvi rischi per la propria incolumità. Sicuramente
poco dibattuta è, appunto, la questione delle persone trans in carcere.
Una
ordinanza del 13 luglio 2011 recita: “Le terapie necessarie per il mutamento
dell’identità di genere non attengono a mere “scelte personali” del detenuto,
ma al diritto soggettivo alla salute, la cui tutela può essere azionata avanti
al giudice di sorveglianza a norma degli artt. 14 ter, 69 Legge 26 luglio 1975,
n. 354; il detenuto che, essendo affetto da disturbo dell’identità di genere,
abbia intrapreso prima della carcerazione una terapia ormonale ha diritto alla
sua somministrazione a cura dell’amministrazione penitenziaria e con spesa a
carico del servizio sanitario nazionale”.
Eppure
le condizioni delle persone trans, soprattutto delle donne trans nelle carceri
italiane resta drammatica: vivono separate dagli altri detenuti; sono oggetto
di desiderio sessuale e, al tempo stesso, di disgusto; non possono contare su
controlli medici specifici nella somministrazione degli ormoni. Secondo i dati,
ogni anno nelle carceri italiane una persona transessuale su quattro si suicida
o commette atti di autolesionismo.
Ciò che
ruota intorno al nome elettivo, ai documenti, all'identità di una persona e al
riconoscimento di essa risulta, insomma, di estrema importanza, potendo
influenzare gran parte della sua vita.
Ecco il
perchè dell'importanza, per esempio, della Carriera Alias, che molte università
italiane, l'Università di Napoli Federico II tra le prime, stanno procedendo ad
adottare. Si tratta della possibilità, per gli studenti in transizione di
genere, di avere un tesserino universitario recante il nome elettivo. In altre
parole significa vivere un contesto che li fa sentire riconosciuti. D'altronde
il riconoscimento è tutto ciò che le persone trans nel corso della loro storia,
comunitaria e spesso anche personale, hanno cercato di ottenere.