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La diffusione illecita di materiale sessualmente esplicito: non è Revenge, ancor meno Porn.

Mano che scrive sulla testiera del pc


A cura di Arianna D’Isanto  

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.
La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.
La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. […]

Quanto appena riportato corrisponde al testo dell’articolo 10 della legge n.69/2019, rubricato "Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti", che introduce nel codice penale, all'articolo 612-ter, una fattispecie ad hoc, volta a sanzionare il fenomeno del c.d. Revenge Porn.
La legge 19 luglio 2019 n. 69, reca modifiche al codice penale in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Nello specifico essa si compone di 21 articoli, che individuano un catalogo di reati attraverso i quali si esercita la violenza domestica e di genere, accelerando l'eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime, inasprendo le pene per alcuni dei citati delitti e introducendo nuove fattispecie di reato. Grazie a quest’ultimo punto, il Revenge Porn è ad oggi, a tutti gli effetti, un reato. Il primo passo necessario per affrontare questo fenomeno sempre più diffuso è stato compiuto; il dato di fatto, però, sembra essere discordante da queste premesse. Ancora oggi coloro che subiscono questo tipo di violenza rischiano il posto di lavoro, vivono sentimenti di vergogna e vengono additate come “donne dai facili costumi”. Queste reazioni sono frutto di logiche maschiliste e sessiste che sottendono non solo i rapporti interindividuali ma influenzano anche le dinamiche relazionali caratterizzanti i nuovi spazi digitali di condivisione e scambio. Non a caso, infatti, destinatari privilegiati di questi reati sono principalmente le donne, ed in misura sempre più ampia anche gli uomini omosessuali.
Un contesto socioculturale così strutturato va ad alimentare fortemente sentimenti come quello dello Slut Shaming. Con questo neologismo, nato in ambito filosofico femminista, viene definito l'atto di far sentire una donna colpevole o inferiore per determinati comportamenti o desideri sessuali che si discostino dalle aspettative di genere tradizionali.
È proprio questa rappresentazione, purtroppo così attuale della sessualità femminile, che genera terreno fertile per il proliferarsi di fenomeni del calibro del Revenge Porn, come nel caso della Sextortion. Con questo termine si fa riferimento al ricatto sessuale da parte di soggetti che richiedono denaro, minacciando di diffondere materiale intimo prodotto dalla vittima. In alcuni casi è richiesto, in cambio, materiale sessuale ancora più spinto. Spesso questi tipi di minacce sono portati avanti da hackers che riescono, illegalmente, ad impossessarsi del materiale presente sui nostri dispositivi.
Ciò che differenzia il fenomeno specifico relativo alla Sextortion da quello del Revenge Porn, non è solo l’assenza in quest’ultimo caso del ricatto esplicito e dell’estorsione di denaro come fine ultimo, ma la presenza nella maggior parte dei casi di un legame affettivo tra vittima e carnefice. Lo scopo di questo atto violento diventa quindi umiliare e vendicarsi di un torto subito, diffondendo materiale intimo che non è stato ottenuto però illegalmente ma prodotto e condiviso spontaneamente dalla vittima. Questo delicatissimo aspetto del fenomeno in questione, apre una profonda riflessione sul tema del consenso. Il consenso a filmare non corrisponde al consenso a diffondere, e la condivisione consapevole e volontaria con una o più persone, non legittima la ri-condivisione dello stesso materiale in altre sedi da parte di terzi.
Proprio in questi casi il linguaggio risulta essere veicolo potente di messaggi impliciti e sommersi, che pesano fortemente sui vissuti emotivi, e non solo, delle donne che si trovano a dover affrontare questa situazione.
Se spacchettiamo l’espressione “Revenge Porn”, infatti, possiamo ritrovare due termini che dopo una breve riflessione potrebbero non rappresentare a pieno il fenomeno di cui stiamo parlando. Revenge difatti significa “vendetta” e presuppone quindi un comportamento antecedente che giustifichi tale reazione, ma accettare questo significa colpevolizzare la vittima che ha scatenato tale reazione e legittimare quella che è a tutti gli effetti violenza di genere. Allo stesso tempo anche il termine Porn risulta non essere pienamente appropriato in quanto nella pornografia sia professionale che amatoriale sussiste un consenso alla diffusione. Inoltre, aspetto ancora più peculiare di questo fenomeno è la reiterazione. Il tipo di violenza, in questi casi, non si verifica una sola volta ma all’infinito perché il materiale in questione può diffondersi in modo esponenziale. Indipendentemente dalla volontà delle persone coinvolte, la violenza si perpetra nel tempo e la donna che inizia un percorso di uscita dalla dinamica violenta, non ha il potere di emergerne realmente, perché il controllo e le conseguenze di questo tipo di azioni vanno oltre la relazione con l’autore della violenza che ha reso potenziali autori i destinatari di quel materiale.
Come si può intervenire? In questi casi l’azione legislativa e giuridica è necessaria e propedeutica all’intervento trasformativo, ma spesso non è sufficiente a risolvere la problematica e a sollevare le vittime da un’esperienza profondamente destrutturante.
Un lavoro di supporto alle survivors non deve mai distaccarsi da un lavoro costante di sensibilizzazione collettiva rispetto alla tematica, che coinvolga sia le potenziali vittime ma soprattutto i potenziali autori e vada decostruire costrutti fortemente stereotipati e arcaici che ancora intrappolano ed umiliano l’immagine e il ruolo delle donne.

 

 

 

 
 

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