A cura di Viviana Altea Indolfi
Il termine queer ha
origini anglosassoni, veniva utilizzato nel diciannovesimo secolo per indicare
le persone omosessuali, connotandole di un’accezione stravagante, ambigua,
negativa, un sostituto della parola freak,
utilizzata per delineare le differenze rispetto alla norma, in ambito fisico
e/o psicologico di un individuo o di un gruppo. L’etimologia della parola
deriverebbe dal teutonico quer, che
significa “diagonale”, “di traverso”.
Dalla sua nascita il termine si è evoluto, anche grazie al
suo impiego in ambito accademico. La scrittrice e studiosa di Lingue e
Letterature Straniere Teresa de Lauretis lo introdusse per la prima volta nella
rivista Differences, con un articolo
dal titolo emblematico Queer theory. Gay
and lesbian sexualities (1991, 3), comprendente gli atti del convegno
omonimo tenutosi ne febbraio dell’anno precedente, presso l’Università della
California, a Santa Cruz. Sul versante dell’attivismo LG, in quello stesso
periodo, la teoria queer prende
forma nel contesto nordamericano, tramite le provocazioni dell’organizzazione
Queer nation, che contestava la rappresentazione dell’omosessualità nei media.
La de Lauretis spiega le tre intenzioni salienti della
parola queer: il rifiuto della visione eteronormativa; il superamento
del binarismo degli orientamenti
sessuali, gay e lesbica; la preponderanza della componente della “razza” nella
costruzione della soggettività sessuale (Turner 2000, p. 108). Specifica,
dunque, che la teoria queer permette
di “rielaborare o reinventare i termini della nostra sessualità, di costruire
un altro orizzonte discorsivo, un altro modo di pensare il sessuale” (T. de
Lauretis, 1991, p. IV).
Gli studiosi del queer
evidenziano come i concetti di femminile e maschile siano limitati e limitanti,
nel momento in cui si riferiscono alla sola naturalità, annullando la
costruzione simbolica, storica e sociale del genere. Ciò che viene messo in
luce è, quindi, il forte potere di quelle che sono le differenze.
È per questo che, a partire dagli anni Novanta il
termine viene impiegato per nominare quei “soggetti sessuali presi in mezzo dalle categorie binarie
[…]” (Pustianaz 2004, p. 444).
Sullo scenario di questa nuova teoria identitaria, non
possiamo non ricordare il contributo di Judith Butler, che parla di performatività del genere (1990), in
riferimento all’interpretazione di tale costrutto in base alle norme sociali
vigenti in un dato contesto e alla sostituzione di questa concezione
costruzionista con quella dell’innatismo, della naturalità.
In Italia il dibattito sulla queer theory ha tardato a far sentire la sua voce. In origine
veniva utilizzata come sinonimo della sigla LGBT, ma anche, in alcuni contesti,
come contrapposizione all’etichetta per le minoranze sessuali e di genere.
Negli ultimi anni si è passati, invece, anche grazie al
contributo politico di numerose realtà associative per la tutela dei diritti
civili, all’utilizzo della parola queer come
termine ombrello, quindi in
sostituzione della sigla LGBT, nell’intenzione di travalicare il binarismo, non
solo di genere, agito a livello societario, dalla cultura dominante genderista,
ma anche sessuale, all’interno della stessa comunità gay, lesbica, bisessuale,
transgender ed intersessuale. Il disvelamento della realtà queer è stato smosso, dunque, anche grazie alla nascita di una
nuova concezione delle identità di genere, per le quali esso non inizia né
finisce con i costrutti biologici, ma neppure con l’interpretazione di quello
che sono i ruoli e le espressioni.
BIBLIOGRAFIA
J. Butler, Gender trouble.
Feminism and the subversion of the identity,
New York-London 1990 (trad. it. Scambi di genere. Identità, sesso e
desiderio, Milano 2004);
T. De
Lauretis , «differences. A Journal of feminist cultural studies», 1991, 3, nr.
speciale: Queer theory. Gay and lesbian sexualities;
M. Pustianaz, Studi queer, in M. Cometa, Dizionario degli
studi culturali, a cura di R. Coglitore, F. Mazzara, Roma 2004, pp. 441-48;