A cura di Mariano Gianola
Il racconto delle esperienze personali rappresenta
un'importante traccia della vita di una persona e delle dinamiche sociali che
l'hanno investita. Si pone come uno spaccato di situazioni - positive, negative
o ambivalenti - che possono permettere la conoscenza e la comprensione di
determinate realtà.
Quando la narrazione ha per oggetto le discriminazioni, gli
episodi raccontati permettono di comprendere le percezioni, gli stati d'animo e
i disagi di coloro che le hanno subite e si costituiscono come scenari che
possono permettere di riflettere e/o di non riprodurre determinati
comportamenti che, anche inconsapevolmente, arrecano danno a qualcuno.
Si riporta un'intervista a Daniele Mollo, ragazzo laureato
in Lingue, Letterature e Culture dell'Europa e delle Americhe, che ci narra
la propria esperienza circa la condizione di disabilità e le relazioni interpersonali appartenenti alla propria
sfera biografica.
1. Daniele, ti va di raccontarmi alcuni aspetti circa le
esperienze in cui ti sei sentito discriminato?
“Sono stato abbastanza fortunato in
quanto, sin da piccolo, non ho subito discriminazioni particolarmente forti,
sia a scuola che in altri ambienti.
Nella comunità omosessuale, invece, qualche
discriminazione penso di averla subita.
Già, personalmente, a causa della mia disabilità,
ho sofferto di una sorta di complesso di inadeguatezza nei confronti delle
persone che non sono in questa condizione.
Ho pensato che la mia situazione fisica potesse scoraggiare
qualche altra persona che desiderasse instaurare un qualsiasi tipo di relazione
con me e, in particolare, un legame di tipo sentimentale. Ciò
perché, inevitabilmente, questa persona dovrebbe
– giocoforza
– sobbarcarsi
anche alcune problematiche derivanti dalla disabilità,
nonostante io abbia una vita abbastanza autonoma e un ausilio di una persona
che mi sostiene per determinate necessità.
Esistono, rispetto la mia condizione, delle difficoltà oggettive che potrebbero scoraggiare. Molti, infatti, non
se la sentono di confrontarsi con questo tipo di situazione. Qualche volta, mi è
stato anche detto esplicitamente –
cosa che mi ha colpito molto –
in assoluta tranquillità,
senza che mi abbiano offeso, che sarebbe stato difficile intraprendere una
relazione con me. In particolare, mi riferisco a un ragazzo che mi ha
esplicitato la propria difficoltà a instaurare una relazione affettiva
con me perché,
se la storia fosse finita, si sarebbe sentito in colpa nel lasciarmi “solo”.
Il mio compagno dovrebbe essere un “compagno”, non una persona che mi accudisce. Dovrebbe condividere con me un percorso di vita.
A un ipotetico compagno non chiederei di annullare la
propria vita per me, nemmeno di rinunciare alla propria indipendenza e agli
spazi personali. Anche io voglio preservare i miei spazi e la mia autonomia.
Avverto che la mia situazione fisica, spesso, mi
compromette o, meglio, mi mette in una condizione, se non di “diversità”,
che mi fa percepire come se avessi una marcia in meno rispetto a chi non è
disabile.
Ho anche incontrato persone che non si sono create il
problema rispetto la mia condizione, anzi, volevano stare con me proprio in
virtù della
mia disabilità. Di questo, non riesco a trovare il perché.
Tu lo sai? (ride). Questa cosa mi è
capitata spesso, almeno in una
ventina di casi.
Quando sento una cosa del genere, cioè
che un ragazzo desidera stare con me
perché sono
una persona in condizione di disabilità, non sono propenso a instaurare
alcuna forma di rapporto. Scappo, proprio perché non riesco a dare una spiegazione personale.
Voglio essere amato perché sono Daniele, per la persona che sono, non perché
faccio esperienza di una condizione
di disabilità.
In tale senso, un ragazzo al quale ho chiesto perché
desiderasse stare come me mi ha
spiegato che era forte la sua fantasia e il desiderio di andare a letto con una
persona disabile perché vedeva
tale condizione come garanzia di lealtà, affidabilità e, inoltre, credeva che i soggetti disabili vadano oltre
determinati standard o parametri socialmente approvati e ricercati (come, ad
esempio, avere un fisico perfetto).
Penso che anche le persone disabili, come quelle che
vengono definite “normodotate”, possono essere poco leali e
conformarsi a determinati standard”.
2. Nonostante ognuno abbia una propria soggettività, se
dovessi dare un consiglio alle persone vittime di pregiudizio e stigma a causa
del fatto che l'omosessualità è
ancora un orientamento sessuale
oggetto di discriminazione, cosa gli diresti?
“Consiglierei a loro di “guardarsi intorno”
e di scegliere, inizialmente, una
ristretta cerchia di persone con le quali parlare di se stessi. Non va tenuto
tutto dentro, soprattutto quello che si è, anche se ciò
dipende dal contesto e da molte
variabili.
Ad esempio, io sono nato in una cittadina in provincia di
Napoli in cui vige una mentalità molto chiusa e tradizionale e, per
questo, non ho ritenuto opportuno fare subito coming out.
La mia cittadina, ovviamente, non può
essere paragonata a Napoli ed alla
ricchezza che questa offre rispetto le differenze esistenti e nella quale,
presumo, la mentalità è maggiormente aperta.
Molto presto ho avuto la consapevolezza di essere una
persona omosessuale, all'età di 11 anni. Non ho fatto subito
coming out; per un determinato periodo ho detto ai miei amici che mi piaceva
una ragazza. In realtà, mi sono sempre piaciuti i ragazzi e il mio dire che mi
piaceva una donna era un escamotage per nascondere la mia omosessualità.
Ho scelto, poi, di confidarmi con quella che era la mia
migliore amica. Ricordo ancora il momento: ero mano nella mano con lei, mi
sentivo emozionato e tremavo. Avevo paura che il nostro rapporto sarebbe
cambiato. Non è stato
così, come
non lo è stato
nemmeno per quegli amici ai quali ho sentito di raccontare quella parte di me
stesso che, al tempo, sentivo come riservata e che, credevo, avrebbe potuto
essere oggetto di disapprovazione.
Una volta compreso che i rapporti con le persone a me più
care, con le quali mi sono aperto,
non sarebbero cambiati, ho cominciato a dire anche agli “altri” che sono una persona omosessuale. Non mi interessava del
giudizio altrui, perché avevo
la consapevolezza di avere alle spalle delle persone cui voglio bene e che mi
sostengono.
Il mio consiglio, che vale per ogni forma di differenza
alla quale è associata
una etichetta negativa, è questo:
se proprio non ce la fate a dire al mondo chi siete, non obbligatevi subito,
verrà da sè, con il tempo. Iniziate a
parlare con le persone con le quali avete fiducia e che pensate non vi possano
giudicare. Cominciate così,
per gradi, affinché ciò
possa essere il preludio per poter
dire, in famiglia o in altri contesti, chi siete, essendone fieri”.
3. Sappiamo che l'omosessualità non è una
malattia, ma un orientamento sessuale naturale da considerare al pari delle
altre forme di sessualità come, ad esempio, l'eterosessualità e la bisessualità. Hai detto che il contesto nel quale
vivi, afferente la provincia di Napoli, ha – utilizzando le tue parole – una “mentalità chiusa”.
Anche se può sembrare una domanda semplicistica, perché
ciò dipende dai contesti e dalle persone coinvolte, come
spiegheresti alle persone, che ancora hanno pregiudizi, che l'omosessualità
è un
orientamento sessuale naturale e da non stigmatizzare?
“Gli spiegherei che sono una persona
che ama un'altra persona, un maschio che ama un altro maschio. Io, Daniele,
sono gay perché nella
prospettiva di legame sento soltanto di poter amare un altro uomo come me. Non
sono mai stato con una donna, non posso fare il raffronto, ma desidero un uomo
accanto a me.
Spiegherei, ancora, alle persone che hanno riserve
sull'omosessualità che il mio orientamento sessuale non è
il frutto di un vizio, di un
capriccio o di una perversione. E' una forma di amore come le altre,
rappresenta il sentimento che io posso donare a un altro uomo, il sostegno che
gli posso offrire e che mi aspetto, la strada che porta due scalatori a unire i
propri sacrifici, insieme, condividendo lo stesso obiettivo.