A cura di Cecilia Montella.
"E se gli
uomini, come le donne, fossero da sempre vittime del mito della virilità?"
il libro di Olivia Gazalè (Il mito della
virilità, 2020) affronta questo stereotipo attraverso un percorso
filosofico e culturale che ci porta lontani nel tempo. L'autrice sottolinea che
stiamo assistendo ad un particolare fenomeno per cui l'ordine gerarchico tra i
sessi, rimasto per millenni primo fondamento dell'ordine sociale, sta
implodendo.
Per consolidare il proprio dominio sul sesso femminile, il maschio,
fin dalle origini della civiltà, ha teorizzato la propria supremazia costruendo
il mito della virilità, un discorso
che ha determinato l'inferiorità della donna nella sua essenza, ma anche quella
dell'altro uomo (lo straniero, il "subumano", il
"pederasta"...). È così che questa narrazione ha storicamente
legittimato la sottovalutazione della donna e l'oppressione dell'uomo sull'uomo.
Questo modello dell'onnipotenza maschile è, tuttavia, da un secolo, in piena
decostruzione, a tal punto che certi spiriti nostalgici lamentano una crisi
della virilità e accusano il femminismo di aver privato l'uomo della sovranità
naturale.
La tesi di questo libro è che il malessere maschile sia reale e che
sia stato causato dalla trappola che l'uomo tese a se stesso tremila anni fa,
compiendo una rivoluzione viriarcale,
che fece di lui il padrone assoluto della donna. Facendo del mito della superiorità maschile
il fondamento dell'ordine sociale, politico, religioso, economico e sessuale,
valorizzando la forza, il gusto del potere, l'appetito di conquista e l'istinto
guerriero, gli uomini hanno giustificato e organizzato l'asservimento delle
donne, ma si sono anche condannati a reprimere le proprie emozioni, a temere
l'impotenza e a biasimare l'effeminatezza, coltivando allo stesso tempo il
gusto della violenza e della morte eroica.
Ma cosa vuol dire "essere un uomo"?
Il modello di esaltazione della virilità porta con sé la consegna di aderire ad
una serie di obblighi comportamentali e morali, ma anche di confermare e
dimostrare costantemente la loro perfetta interiorizzazione, in modo che la
virilità costituisca una sorta di prestazione imposta: mentre le ragazze sono definite
come paurose, deboli e piagnucolose, dai ragazzi ci si aspetta che siano forti
e coraggiosi. La virilità deve costantemente esser "performata", ed è
all'interno di quest'obbligo performativo che possiamo inquadrare la cultura
dello stupro e tutti i fenomeni di violenza maschile nei confronti delle donne
e di chi non viene considerato "abbastanza uomo". Ma perché l'uomo
avrebbe costantemente bisogno di dimostrare la propria virilità? Pensiamo alla
diffusione sempre maggiore del Viagra per scongiurare il timore dell'impotenza
sessuale, o più semplicemente al bisogno di avere tanti soldi, una macchina
potente, o il telefono con le prestazioni più elevate.
L'uomo è inquieto
riguardo alla sua identità di genere sessuata, si sente costantemente minacciato
ed è condannato a dimostrare il suo vigore di essere uomo. Olivia Gazalè scrive
che la parola testicoli rimarca
questa necessità, in quanto testis
vuol dire proprio testimone: l'uomo
ha costantemente bisogno di testimoniare la sua virilità, poiché aleggia sempre
il timore che essa possa essere messa in dubbio.
La crisi del
modello tradizionale di virilità sta quindi, pian piano, smontando l'illusione
onnipotente della figura maschile, facendo cadere l'uomo nella trappola che
egli stesso ha costruito. Questa crisi si porta dietro delle ripercussioni
sociali che si manifestano anche nel disorientamento dei padri: qual è il ruolo
della figura paterna nella nostra epoca? A lungo il padre ha rappresentato la
colonna portante della famiglia, detentore del potere, della moglie, dei figli,
dei soldi e del cognome.
Ma adesso, con la crisi del modello della virilità,
citando Recalcati potremmo chiederci "cosa resta del padre?". Osserva
Recalcati che nell'epoca "ipermoderna"quel che resta del padre è il
fatto che non è più lui la figura ideale e idealizzata che possa indicare cosa
sia “una vita giusta o il criterio universale della felicità” perché nessuno al
mondo possiede questo sapere. Quello che il padre può trasmettere è la sua
testimonianza dell’impossibilità stessa di questo sapere, dell'impotenza e
della fragilità umana che non si estingue attraverso il dominio, la supremazia
ed il feroce odio tra gli uomini.