A cura di
Cecilia Montella
Secondo quanto
affermato dal famoso Giuramento di Ippocrate, un medico ha il dovere, prima di
tutto morale, di rispettare l'impegno preso verso il prossimo e verso la
professione; tale asserzione sottolinea l’importanza della relazione tra il medico e ilpaziente che è caratterizzata da
molteplici fattori di carattere storico, sociale e culturale.
La relazione
medico-paziente si è trasformata nel corso degli anni, passando dal modello “disease-centred”
al modello “patient-centred” ed i concetti di “salute” e di “malattia” si sono
evoluti passando da un modello biomedico
ad un modello bio-psico-sociale.
Il modello
biomedico è stato adottato fino agli anni ’50 del secolo scorso ed intende la
salute come assenza di malattia e di deterioramento. Secondo questo modello il
medico è un soggetto attivo che compie un esame obiettivo, formula un’ipotesi
diagnostica ed una terapia rivolta ad un paziente, portatore della malattia e
spettatore passivo della cura.
Dopo gli anni
’50 si avviò un graduale passaggio al modello bio-psico-sociale o
patient-centred. Questo si caratterizza per l’acquisizione di un
approccio olistico, integrando nella raccolta e nell’analisi delle informazioni
fornite dal paziente non solo gli aspetti biologici, ma anche quelli
psicologici e sociali, relativi al disturbo presentato (Engel, 1977). Secondo
tale approccio la salute e la malattia rappresentano i prodotti
dell’interazione tra fattori psicosociali e biologici, all’interno di un’ottica
olistica, sistemica e circolare. In tal senso la salute delle persone è nelle
loro stesse mani, in quanto dipende dal corredo genetico, ma anche e
soprattutto dallo stile di vita e dalle condizioni ambientali in cui si
trovano.
Si passò,
dunque, dall’orientamento alla malattia (TO CURE) all’orientamento alla
relazione (TO CARE). La relazione medico-paziente non è più concepita come mezzo
per formulare una diagnosi, ma diventa, quindi, lo scopo stesso della medicina.
In numerosi casi,
la comunicazione e l’alleanza terapeutica con le persone LGBT+ che chiedono
aiuto diventa difficile: da una parte il paziente LGBT+ può mostrare maggiori
resistenze nel confidare al proprio medico curante questioni relative alla
propria intimità e alla propria sessualità, temendo di non essere compreso, dall’altra
il sanitario può non essere formato nell’affrontare aspetti connessi
all’orientamento sessuale o identità di genere del paziente. Permangono,
infatti, una profonda ignoranza e forti pregiudizi nel mondo sanitario nei
confronti delle persone Lgbt+.
La sessualità
rappresenta una dimensione totalmente pervasiva dell’essere umano e, talvolta,
è molto difficile coglierne le componenti: l’Organizzazione Mondiale della Sanità
più volte ha ribadito, a proposito della salute sessuale, che questa consiste
in Benessere fisico, emozionale, mentale e sociale collegato alla sessualità. Benché
la Direttiva 2000/78 abbia incluso, per la prima volta, l’orientamento sessuale
fra le caratteristiche personali sulla base delle quali ogni ingiustificata
differenziazione è, di fatto, una violazione del principio della parità di
trattamento, tale tipo di discriminazione sembra colpire ancora moltissime
persone, anche in ambito medico-sanitario-ospedaliero, procurando danni
incalcolabili a livello sia individuale che sociale.
Mary Barber, Medico Psichiatra, sull’Huffington Post del 15/5/2014 riporta
due storie cliniche altamente interessanti riguardo l’argomento.
Betty è andata
dal suo medico di famiglia per depressione. Ha 75 anni ed è una segretaria in
pensione, che per mesi è stata incapace di mangiare, dormire o prendere piacere
da alcunché. Il suo dottore, preso nota dei sintomi, prescrive a Betty un antidepressivo
di nuova generazione.
Il problema è
che il dottore non ha ottenuto l'intera storia della paziente. Non ha chiesto
specificamente nulla e Betty non ha detto spontaneamente che la sua depressione
è iniziata quando la sua compagna Judith è morta. Betty e Judith hanno vissuto
insieme per 40 anni, non si erano mai dichiarate apertamente come coppia, non
avevano mai avuto contatti con la comunità Lgbt+. La morte di Judith, comunque,
ha significato anche la fine dell'intero sistema di supporto per Betty. Il
dottore di Betty non è stato capace di aiutarla perché non ha ottenuto tutte le
informazioni.
Questa prima
storia clinica evidenzia come avere un dottore che non conosce e riconosce il
proprio paziente come “persona” non sia solo un'esperienza sconfortante e disagevole,
ma possa anche portare ad una diagnosi errata e ad un trattamento errato.
Di
seguito si riporta una seconda testimonianza della stessa fonte.
BJ è una persona
transgender di 22 anni dall'aspetto maschile che è arrivata al pronto soccorso
dell'ospedale di Manhattan dopo essere stato picchiato. Da adolescente è stato
cacciato di casa dai genitori ed ha vissuto come un barbone un po' ovunque. I
medici del pronto soccorso hanno trattato le ferite del volto di BJ, ma
vedendolo agitato e fuori di sé hanno chiamato lo psichiatra, che ha ricoverato
BJ in reparto di psichiatria per “agitazione psicomotoria”.
Durante
l'ospedalizzazione lo staff del reparto lo chiamò sempre Barbara, suo nome
“anagrafico”, interruppero l'uso del testosterone che aveva assunto per anni,
pensando che fosse la causa dell'agitazione e lo obbligarono ad assumere un
neurolettico (aloperidolo). Nessun medico chiese mai a BJ che cosa era accaduto
quel giorno e chi lo avesse aggredito. Dopo le dimissioni BJ interruppe la
terapia con aloperidolo e giurò di non vedere mai più un medico in vita sua. I
medici che presero in carico BJ non ottennero informazioni essenziali sul
motivo di ricovero presso il Pronto Soccorso, lo sottoposero ad un trattamento
da incubo e ad un'ospedalizzazione forzata in psichiatria, durante la quale i
suoi bisogni non furono presi in considerazione e nemmeno lo chiamarono mai con
il nome che si era scelto.
Questa seconda
storia clinica evidenzia come possa essere violenta e spersonalizzante una
relazione terapeutica con un paziente che ha un’identità di genere differente
dal proprio sesso biologico e che per questo non viene riconosciuto nella
propria individualità.
Oggi in Italia
le persone trans difficilmente accedono alle cure mediche. Molte persone FtM,
ad esempio, rifiutano di affrontare una visita ginecologica per molteplici
motivi. Alcuni hanno paura di esibirsi o tentano di “cancellare” la propria
anatomia genitale, rifiutando quindi di prendersi cura della propria salute
ginecologica. Altri, invece, hanno incontrato in passato un’accoglienza
totalmente inadeguata da parte del medico e del personale sanitario, che ha
costituito un vero e proprio trauma.
Nasce da queste
difficoltà l’esigenza di continuare ad informare e formare il personale
sanitario riguardo le questioni connesse all’identità di genere ed agli
orientamenti sessuali, affinché non si perpetuino stigmatizzazioni, pregiudizi
o atteggiamenti “assistenzialisti e pietistici” della situazione delle persone
LGBT+ ma, al contrario, si ambisca al sostegno della persona e di tutte le sue
sfumature identitarie.