A cura di Nicola Dario Casolare
L'essere, o meglio il
divenire uomo e donna, si inscrive lungo una linea evolutiva nella quale
convergono, oltre ai fattori costituzionali, anche elementi
culturali e sociali provenienti dall'ambiente di vita e caratteristiche del periodo
storico in cui si è inseriti, nella misura in cui, come evidenziano Money e
Tucker, "crescere vuol dire soprattutto
modellarsi per trovare il debito spazio in una società". Più
nello specifico, è la dotazione biologica di cui ogni individuo è
portatore a sancire il modo attraverso cui il bambino verrà gradualmente
inserito nella cultura d'appartenenza in funzione delle aspettative e delle
regole di genere prescritte e attese all'interno di uno specifico contesto.
Cosa intendiamo quando parliamo di regole e aspettative di genere? Ossia quali
sono i comportamenti appropriati, accettati e condivisi per un uomo e per una
donna?
In accordo con la posizione espressa da numerosi autori tra cui
recentemente Elisabetta Ruspini, è possibile rintracciare una significativa
continuità temporale nell'utilizzo degli stereotipi connessi all'appartenenza sessuale.
In particolare l'autrice riporta i risultati di due grandi studi, il primo
condotto negli Stati Uniti da Broverman il secondo in Germania da Born.
Boverman evidenzia che
gli stereotipi di genere negli anni '60 connessi al modello femminile coincidono
con una concezione della donna vista essenzialmente gentile, tranquilla,
riconoscente, molto religiosa, accorta e sentimentale a fronte degli stereotipi
maschili che dipingono l'uomo come aggressivo, spavaldo, per nulla emotivo,
autorevole, ambizioso, diretto, attivo, dedito ai piaceri della vita e
impavido; risultati analoghi furono raccolti da Born rispetto agli stereotipi
di genere negli anni '90.
L'uomo è dunque percepito come forte, razionale e
indipendente, contrariamente alla donna definita come dipendente, tranquilla,
incline all'ascolto, all'affetto e al lavoro di cura: si delinea in questo
senso quello che può essere definito il "cliché della donna e dell'uomo
moderno". Nella prospettiva contemporanea alcune di queste concezioni sembrano
essere sfumate, mentre altre restano ancora in auge tra cui in primis il
binomio femminile-materno maschile-lavoratore/procacciatore di reddito.
Molti studi hanno dimostrato che tendenzialmente gli uomini sono maggiormente
attaccati a queste visioni stereotipiche dei ruoli, rispetto alle donne in cui
è più forte la spinta di autoaffermazione, autonomia e indipendenza.
Analogamente anche Money ritiene che la visione stereotipica del maschio
coincide con una serie di precetti dogmatici sedimentatisi nell'inconscio
collettivo di molte società occidentali e non: il maschio è colui che lotta
senza piangere, che non ammette la sconfitta, colui che si assume la
responsabilità di provvedere al sostentamento del proprio nucleo familiare
facendo qualsiasi lavoro anche il più umile ma mai deve occuparsi della cucina,
della pulizia o del bucato; essere uomo vuol dire mostrare affetto verso moglie
e figli e a nessun altro soprattutto ad un altro uomo. Essere donna invece
significa essenzialmente votarsi, aderire e adempiere alla funzione di angelo
del focolare domestico. Coloro che non si conformano a queste aspettative, che
assumono il significato di valore atteso e da non disattendere, corrono il
rischio di essere esclusi e marginalizzati dal sistema culturale condiviso diventando oggetto di
stigmatizzazione e discriminazione. In questo contesto si inscrive il fenomeno
dell'omo-transfobia e della violenza di genere.
Bibliografia:
Borrillo Daniel (2009), "Omofobia. Storia e critica di un
pregiudizio", edizioni
Dedalo, Milano
Connell R. (2011), "Questioni di genere-seconda edizione",
Il Mulino, Bologna
Graglia M. (2012), "Omofobia. Strumenti di analisi e di
intervento", Carocci,
Roma
Lingiardi V. (2012), "Citizen
gay. affetti e diritti", Il Saggiatore tascabili, Milano
Ruspini E. (2009), "Le identità di genere", Carocci
editore, Roma
Valerio Paolo, Vitelli
Roberto (2012), "Sesso e genere",
Liguori, Napoli