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Siamo le parole che usiamo: una riflessione sull’utilizzo del linguaggio di genere a lavoro

Dizionario

A cura di Cecilia Montella.

Fino agli anni ’50 del secolo scorso, molti lavori erano preclusi alle donne, e ciò spiega perché molte professioni erano quasi sempre declinate al maschile (“dottore”, “medico”, “chirurgo”, “giudice”, “sindaco”, “assessore”). Un invito a un uso non sessista della lingua è stato fatto dall’Unesco in un documento pubblicato nel 1994, in applicazione dei deliberati della venticinquesima e ventiseiesima sessione della Conferenza generale. Il documento, in francese e in inglese, “vuole aiutare a prendere coscienza che certe forme di linguaggio possono essere sentite come discriminatorie per le donne, “perché tendono a nascondere la loro presenza o a farla apparire come eccezionale”. Il documento propone delle soluzioni alternative; qualche esempio per l’inglese (proposte già largamente adottate negli Stati Uniti): “chairperson” o “president” invece di “chairman”; “photographer” o “camera operator” invece di “cameraman”, “police officer” invece di “policeman”.
Con l’ingresso delle donne in nuovi ambiti professionali, prima esclusivamente riservati agli uomini, anche in italiano l’uso dei termini si è modificato e continua a cambiare seguendo una spinta che mira sempre più all’inclusione ed alle pari opportunità. Tale movimento, tuttavia, non è stato fin da subito positivamente accolto: in alcuni casi, erano proprio le donne che ricoprivano cariche tradizionalmente maschili a non volere l’appellativo declinato al femminile. Susanna Agnelli, ad esempio, voleva essere chiamata (quando lo era) senatore, Nilde Jotti “il presidente” (ma poi accettò l’uso dell’Ansa che la chiamava “la presidente”) e all’articolo maschile (“il presidente”) tornò Irene Pivetti.
Oggi, Laura Boldrini, presidente della Camera, da sempre attenta alla parità di genere, chiede di essere chiamata “la presidente”, sottolineando, con l’uso corretto dell’articolo femminile, sia il suo genere sia il suo ruolo. La convinzione che l’adozione al maschile di una qualifica professionale sia una conquista femminista è un errore che sorprende; significa infatti l’opposto, ovvero ritenere che una collocazione professionale sia importante solo se qualificata al maschile, quasi non riconoscendo ruolo ed autorità al genere femminile.
L’Accademia della Crusca ci ricorda che la declinazione femminile innovativa di molte professioni non solo è corretta linguisticamente, ma è positivamente sintomatica del mutamento di linguaggio a seguito del cambiamento della società e dei ruoli ricoperti da ciascuno/a. Un uso più consapevole della lingua contribuisce, infatti, a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società. Molti ricorderanno il recente diverbio sorto in una riunione in Prefettura (a Napoli) perché un cittadino chiamava signora (essendo incerto sul termine prefetta!), invece che protocollarmente prefetto, la titolare di questa carica in una provincia vicina.
È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese.
E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?

 

 

 

 
 

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