A cura di Stella Celentano
Negli ultimi dieci anni il 13% delle persone gay e lesbiche ha
visto respingere la candidatura lavorativa per il proprio orientamento
sessuale. La percentuale sale al 45% se la persona è transessuale (Unar,
Arcigay e Mit, 2014). L’accesso al mondo del lavoro è tra i temi più rilevanti
in materia di diritti delle persone transgender in Italia e non solo.
Secondo Christian Cristalli, presidente e fondatore del Gruppo Trans APS, le
donne trans sono particolarmente svantaggiate a causa di una serie di stigmi
che si abbattono sulle loro vite, precludendo ogni strada che non sia quella
della prostituzione. In moltissimi
casi, il sex work non sarebbe il frutto
di una libera scelta, ma l’unica strada percorribile per “non morire di fame”.
La prima modalità discriminatoria si esplicita in sede di colloquio di lavoro,
dove la persona transgender, che viene identificata come tale in ragione del
suo aspetto fisico o di documenti di riconoscimento, non conformi alla sua
identità, nella maggioranza dei casi vede respinta la sua candidatura.
Quest’ultima modalità causa tassi di disoccupazione più elevati nella
popolazione transgender rispetto alla popolazione non transgender.
La seconda modalità discriminatoria è legata al costrutto della visibilità.
Quella transgender è infatti una condizione che non può prescindere dal
rendersi pubblica. Tale visibilità ha sempre un’immediata ricaduta su tutti gli
aspetti della vita affettiva, familiare ed anche lavorativa, ponendo
nell’immediato le persone interessate a rischio di discriminazione. Con il
coming out la persona può subire mobbing verticale, da parte quindi di
management e datori di lavoro, o orizzontale, da parte di colleghi e pari.
La prima fonte di imbarazzo quando ci si trova di fronte a una persona
transessuale è non sapere se rivolgersi a lei al maschile o al femminile.
Dunque è opportuno rivolgersi alla persona utilizzando il genere che lei ha
scelto, quindi parlando al femminile in presenza di una persona MtF ed al
maschile in presenza di una persona FtM. Sarebbe opportuno che in un ambiente
di lavoro, qualora nascessero difficoltà in tal senso, la persona transessuale
stessa spiegasse al proprio interlocutore come desidera essere chiamata.
Il diversity management è
una strategia aziendale che ha come obiettivo
non solo il miglioramento delle condizioni di lavoro, ma soprattutto la gestione
delle diversità come risorsa fondamentale di vantaggio
competitivo per l’azienda. Oltre all’aspetto economico, le aziende
adottano queste politiche in quanto intenzionate a rispettare una condotta
etica e ad osservare le leggi contro le discriminazioni.
Fortemente rappresentativa della situazione socio-culturale italiana è la
storia di Anna, che ha svolto per 23 anni il ruolo di responsabile logistica in
un’azienda che opera nel settore biomedicale. Anna è stata licenziata dopo aver
espresso alla sua datrice di lavoro il desiderio di iniziare un percorso di
transizione e aver fatto coming out come donna trans. Il licenziamento è
avvenuto nel contesto di una riduzione del personale motivata dal fatto che
l’azienda era stata rilevata da una multinazionale americana. Tuttavia, la
riduzione del personale era di fatto un mero pretesto, in quanto, in separata
sede le è stato detto che i dirigenti
non volevano che una persona trans rappresentasse l’azienda.
Anna si è ritrovata senza un lavoro e con un sussidio di disoccupazione di soli
due anni, scaduto a settembre del 2020. Successivamente, ha provato a cercare
lavoro in altri settori finché non si è rassegnata a causa delle domande
inopportune che le venivano rivolte durante i colloqui, ad esempio: “Come mai
ha delle mani così grandi?” Inoltre riceveva commenti umilianti e imbarazzanti
sulla “profondità della voce”. I datori
di lavoro sembravano essere più interessati al suo aspetto fisico che alle sue
competenze. Una trafila umiliante che ha portato Anna a smettere di cercare un
nuovo impiego. Per quanto riguarda l’area legislativa in materia, vi è una
continua evoluzione.
Al momento attuale, la legislazione italiana tutela le persone discriminate sul
posto di lavoro, per motivi legati all'orientamento sessuale, con l'emanazione
del Decreto Legislativo n. 216 del 9 luglio 2003, in attuazione della direttiva
2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro.