A cura di Camilla
Esposito.
È di assoluta attualità il
dibattito a proposito della legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia. Se è vero
che le norme e i discorsi veicolano atteggiamenti e credenze, regolando
l’accesso di alcuni al riconoscimento in quanto umani, relegando altri alla
sfera del non umano, è vero anche che una delle forme più autoritarie di
legittimazione e di attribuzione di intelligibilità è data proprio dalle leggi.
L’assenza di una legge sui cosiddetti crimini d’odio a movente
omo-bi-transfobico, per esempio, rappresenta un caso di ciò che Hatzenbuehler e
Link (2014) definiscono stigma strutturale. Esso si riferisce a quelle
condizioni sociali, norme culturali e politiche istituzionali che limitano le opportunità,
le risorse e il benessere delle persone stigmatizzate.
L’invalidazione vissuta
a causa dello stigma strutturale ha un impatto significativo sul benessere
delle persone LGBTQ, tanto che coloro che vivono in ambienti dove
l’eterosessimo è molto presente hanno un’aspettativa di vita inferiore di dodici
anni rispetto a chi vive in aree culturalmente più aperte (Hatzenbuehler et al,
2014).
Nel mese in cui si celebra la
giornata della visibilità lesbica, proviamo a fornire alcuni spunti di
riflessione sull’in-visibilità lesbica, dentro e, conseguentemente, fuori dalle
istituzioni.
Un primo esempio ci viene dalla
medicina, da sempre poco attenta non solo all’interfacciarsi correttamente ai
pazienti che non siano cisgender (persone in cui il sesso biologico e
l’identità di genere coincidono) e che non siano eterosessuali, ma anche allo
specifico trattamento medico di cui talvolta questi pazienti necessitano. Basti
pensare come solo recentemente, nel 2019, è stato firmato il decreto con cui
viene adottato il “Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di
Genere”, laddove il genere è considerato il risultato socialmente costruito circa
il comportamento, le azioni e i ruoli attribuiti ad un sesso e come elemento
portante per la promozione della salute.
La Medicina di Genere è lo studio
dell’influenza delle differenze biologiche, socio-economiche e culturali sullo
stato di salute e di malattia di ogni persona. Studi soprattutto statunitensi hanno
spiegato come ci siano differenze rispetto alla propria salute anche solo per
l’orientamento sessuale, in campi come l’oncologia, la cardiologia e le
principali patologie metaboliche o d’abuso. La Medicina di Genere, per decenni
auspicata dai medici donna e punto di partenza importante per il trattamento
sanitario di chi appartiene alle minoranze sessuali, interessa, in realtà,
anche i maschi eterosessuali, dal momento che alcune (poche) patologie, come il
tumore mammario e la SLA, si affidano a protocolli internazionali scritti solo
al femminile.
La necessità di una attenzione
particolareggiata al genere, all’orientamento sessuale e ad altre
caratteristiche identitarie della persona, una attenzione particolareggiata
alla persona nella sua unicità e complessità, vale anche per le donne lesbiche.
Cosa accade, per esempio, ad una donna lesbica nel caso di una visita
ginecologica? Come molte esperienze di donne lesbiche hanno fatto emergere,
esse quasi mai sono previste dalla branca della ginecologia. Nei corsi di
studio universitari di medicina, le MST, Malattie Sessualmente Trasmissibili,
sono trattate solo nell’ambito dei rapporti sessuali tra due uomini o tra un
uomo e una donna. Molto spesso si rivolgono alla paziente domande di routine a
proposito di eventuali rapporti sessuali di tipo eterosessuale o di relazioni
eterosessuali.
Spesso capita che il ginecologo o la ginecologa non siano a
proprio agio una volta a conoscenza dell’omosessualità della paziente, non
mettendo a proprio agio la paziente stessa. Può anche capitare che i rapporti
sessuali della paziente con la o le proprie partner siano considerati “monchi”,
perché privi di penetrazione peniena. Ovviamente, tali esperienze possono
rendere le donne lesbiche più resistenti a sottoporsi a visite e screening
ginecologici.
Un altro esempio di stigma strutturale
che proponiamo qui ha a che fare con la violenza tra partner in relazione di
intimità.
La nostra cultura, che è la
stessa della violenza domestica, così come fino a non molto tempo fa l’abbiamo
chiamata e conosciuta, ci ha abituati a dare una precisa connotazione di genere
a chi è il maltrattante appropriato e chi il maltrattato appropriato:
generalmente gli uomini sono maltrattanti e le donne sono maltrattate. Dalla
letteratura scientifica emerge la rappresentazione per cui le donne non abusano
di altre donne. Quindi, le donne non possono essere autrici o vittime di violenza
intima tra partner, o almeno, quando tale violenza è constatata, non può essere
considerata altrettanto pericolosa e grave di un abuso di un uomo su una donna o
di un uomo in una relazione intima con un altro uomo. Ciò può far sì che le
donne lesbiche siano meno propense ad etichettare la propria relazione come
violenta, nonché a denunciare la violenza. Senza contare la difficoltà a venir
fuori da una relazione violenta se risposte istituzionali volte ad accogliere
donne lesbiche vittime di violenza in relazioni intime sono quasi inesistenti.
FONTI:
Hatzenbuehler M.L., e Link B.G.
(2014). Structural stigma e the health of
lesbian, gay e bisexual populations. Current Directions in Psychological
Science, 23(2), 127-132;
Hatzenbuehler et al., (2014), “Structural stigma and all-cause mortality
in sexual minority populations”, Social Science and Medicine 103, 33–41.