A
cura di Alessia Cuccurullo e Camilla Esposito
Attraverso
le molteplici azioni svolte nelle Istituzioni Scolastiche di ogni ordine e
grado, la Sezione Anti-Discriminazione e Cultura delle Differenze del Centro di
Ateneo SInAPSi si propone di favorire la diffusione di una cultura delle
differenze. L'attenzione verso il campo formativo ha acceso la nostra curiosità
sull'educazione di genere, attraverso la quale è possibile promuovere azioni
concrete di contrasto alle discriminazioni, anche grazie alla destrutturazione
degli stereotipi. È da questo interesse che è nata l'idea di approfondire il
tema attraverso le parole di due esperte nel campo, le pedagogiste Irene Biemmi
e Silvia Leonelli, che con molta disponibilità ci hanno dato l'occasione di
saperne di più attraverso un'intervista telefonica.
Irene
Biemmi è Dottoressa di Ricerca in "Qualità della formazione" e Docente a
contratto di Pedagogia Sociale presso il Dipartimento di Scienze della
Formazione e Psicologia dell'Università di Firenze. Studiosa delle questioni di genere in ambito educativo, si è
interessata all'analisi critica dei libri di testo e dei materiali didattici,
alla formazione degli/delle insegnanti e all'utilizzo dei metodi narrativi
nella ricerca pedagogica.
Silvia Leonelli è Ricercatrice in Pedagogia generale
e sociale presso il Dipartimento di Scienze dell'Educazione "Giovanni Maria
Bertin" dell'Università di Bologna. Il suo principale interesse di ricerca
riguarda l'intreccio tra l'Educazione
di genere e la Pedagogia di
genere.
Irene e Silvia hanno da poco pubblicato "Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte
formative" ,
testo che descrive una ricerca condotta in ambito universitario in merito a
giovani donne e uomini che operano decisioni formative anticonformiste, considerate
"coraggiose" e "diverse", per la propria professione futura. Ovvero, ragazze
che scelgono corsi di studio scientifici e ragazzi che optano per percorsi
universitari finalizzati ai lavori della cura (educativa e non solo).
Silvia, ci descriveresti
di cosa ti occupi principalmente e quali sono i tuoi temi di ricerca?
Ho
iniziato ad occuparmi di Pedagogia di genere a partire dalla tesi di laurea,
che trattava i possibili spunti educativi negli scritti di S. Beauvoir; poi mi
sono appassionata alla scrittura autobiografica delle donne, per passare
all'analisi dell'educazione di genere contemporanea.
Mi
sono resa conto che nel mio settore c'erano pochissimi studi su ciò che accade
oggi nei servizi educativi a proposito dei temi di genere, prevalevano analisi
retrospettive, storiche. Così ho iniziato a osservare "a che punto siamo" nei
contesti formativi rispetto alle pari opportunità o all'attenzione alla
costruzione dell'identità di genere dei giovani. Mi ha interessato soprattutto
vedere il circuito tra teoria e prassi, ovvero che cosa succede quando i gender studies - sviluppati in ambito
filosofico, sociologico, antropologico, psicologico, ecc. - diventano teorie
pedagogiche e modelli educativi, cioè quando si concretizzano in esperienze
vive, dirette, con le ragazze e i ragazzi nelle aule. Questo è stato il filo
conduttore dal punto di vista teorico, ma ho anche partecipato a ricerche sul
campo, in particolare con preadolescenti e adolescenti, sulla normatività
corporea.
Che cosa consideri
"educazione di genere", a partire dalla tua esperienza?
Ci
sono moltissimi attori sociali che fanno socializzazione di genere e praticano
anche una sorta di educazione di genere, come la famiglia, gli amici, i media,
ecc.: tutti esercitano una serie di plurali influenze che un po' ci sfuggono e che,
però, sono ben percepite dai giovani. Se mi perdoni la definizione, direi che troppo
spesso gli attori sociali suonano la stessa musica: i loro messaggi si
dimostrano estremamente convergenti, tanto da far sembrare "naturale" che le
donne siano in un certo modo, circoscritto, e gli uomini siano in un altro
modo, altrettanto perimetrato. Pensiamo ad esempio alla televisione. Mi viene
in mente una vecchissima trasmissione, "La pupa e il secchione", dove era
evidente la solita dicotomia per la quale il femminile è associato al corpo,
alla bellezza, mentre il maschile è collegato alla mente, alla razionalità. Era
una specie di "bignami" degli stereotipi di genere. Eppure "educava". Infatti,
chi guardava questa trasmissione? Per la collocazione oraria possiamo dire: anche le bambine e i bambini, anche gli/le adolescenti, ricettivi e
curiosi sul modo in cui si rapportano gli adulti, e sul corteggiamento. Però,
spesso, non sono in grado di cogliere la finzione insita negli spettacoli di
intrattenimento, e di riconoscere il copione che li anima. Lo stesso vale per
un programma più attuale come "Uomini e donne", che purtroppo fa educazione di genere, spiegando come
dovrebbe funzionare (stando alla tradizione) una relazione sentimentale. Il
fatto è che tutti questi modelli di femminilità e mascolinità, e di rapporto
tra i sessi, vanno a creare dei repertori di conoscenza, che sono cognitivi,
emozionali, corporei, e che possono guidare i comportamenti. Con un'aggravante:
gli stimoli televisivi si pongono perfettamente in linea con ciò che "passa"
negli albi illustrati, nei cartoni animati, nella letteratura per l'infanzia,
nei video musicali, nella pubblicità, nei giocattoli, nell'abbigliamento, nello
sport, nelle famiglie, ecc. Ci sono poche eccezioni in grado di rendere plurale
la rappresentazione del femminile e del maschile.
Ciò
che ho in mente è invece un'Educazione di genere intenzionale, pianificata,
fatta nei contesti educativi con dei conduttori esperti, mediante modalità
didattiche laboratoriali. L'obiettivo resta sempre quello di far acquisire
consapevolezza ai giovani sui loro stessi condizionamenti di genere, sui loro
stereotipi, e soprattutto dare l'idea che nessuno di noi subisce passivamente
le influenze sociali e culturali: c'è sempre uno spazio più o meno ampio di
negoziazione con le aspettative legate al "femminile" e al "maschile"
socialmente intesi. È chiaro che nell'infanzia questo spazio è ridotto, ma
comunque è presente.
Perché è così
importante parlare di educazione di genere?
Ci
muoviamo in un momento un po' complicato: una parte della popolazione mostra
paure e resistenze rispetto alle questioni di genere. Si palesa, oggi, una
sorta di nostalgia per i ruoli di genere del passato, familiari e
professionali. Cioè si manifesta il desiderio di tornare all'antico, per poter
fare riferimento alle dicotomie considerate appunto "naturali": in fin dei
conti, gli stereotipi di genere sono rassicuranti, per via della loro fissità. La
complementarietà tra i sessi decretata dagli stereotipi è tranquillizzante,
poco ambigua, non richiede di confrontarsi con la complessità. Mi sto
ovviamente riferendo al movimento "No Gender".
Un'altra
parte della popolazione, invece, soffre di disattenzione, ritenendo che i
problemi siano già stati superati (l'esempio tipico è la frase: "le donne hanno
raggiunto la parità, anzi a volte hanno il sopravvento") e che sia superfluo e
ridondante occuparsene ancora. Ma oggi noi sappiamo che studiare il genere non
significa più interessarsi solo delle donne: anche gli uomini affrontano
limitazioni che dipendono dal loro sesso di appartenenza, e spesso devono
vivere frenati da condizionamenti.
Dunque
c'è un gran bisogno di parlare di genere nei contesti educativi, i problemi da
affrontare sono molti e hanno ricadute sociali: il gender gap; il bullismo omofobico; la violenza contro le donne; la
conciliazione lavoro-famiglia; il sessismo del linguaggio; l'oggettivazione del
corpo; la segregazione formativa, ecc. Proprio di questo ultimo "nodo
educativo" si occupa la ricerca di Irene, presentata in Gabbie di genere.
Irene, come si possono intrecciare
educazione di genere e scelte universitarie?
In
realtà il collegamento è abbastanza immediato, per come la vedo io. Nella mia
prima ricerca, confluita in "Educazione
sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari", emergeva
che i contenuti dei libri di testo avevano delle ricadute dirette
sull'immaginario delle professioni più adatte ai maschi o alle femmine. Ad
esempio, nei libri di testo del 2000, i protagonisti delle storie erano in larga
maggioranza di sesso maschile e venivano ritratti in una varietà infinita di
tipologie professionali: erano infatti raffigurati in ben cinquanta diverse
professioni, mentre le femmine solo in una quindicina, tra le quali la più
frequente era quella di maestra. Grazie alle statistiche ministeriali oggi
sappiamo con certezza che le bambine e le ragazze sono studentesse brillanti,
conseguono risultati scolastici mediamente superiori ai maschi, però la scuola
le penalizza in forme più o meno subdole, facendo credere loro di essere
inadatte a svolgere una serie di professioni alle quali, guarda caso, la
società attribuisce maggior prestigio sociale. Si crea una spaccatura tra mondo
umanistico "al femminile" e mondo tecnologico-scientifico "al maschile", e la
scuola, anziché smussare la rigidità di questa spartizione non fa altro che
confermarla.
A
mio parere il fenomeno della segregazione formativa può essere interpretato
come una cartina al tornasole delle diseguaglianze di genere tutt'oggi presenti
nel nostro sistema scolastico e accademico. Femmine e maschi frequentano la
scuola insieme, fin dai primi anni, addirittura mesi, di vita: dall'asilo nido
bambine e bambini condividono uno stesso ambiente educativo per un arco di
tempo sempre più lungo, che può arrivare fino all'università. Durante il
cammino però le strade percorse dalle ragazze e dai ragazzi tendono
progressivamente a separarsi, come se seguissero dei bivi obbligati, tracciati
dalla tradizione, che spesso non sono rispondenti alle passioni e ai bisogni
dei singoli. La divaricazione dei percorsi maschili e femminili emerge già
nelle scelte operate dopo la terza media, ma diventa ancora più evidente nelle
iscrizioni ai corsi di laurea universitari nei quali, appunto, i binari
maschili e femminili sono ancora più distanti e separati.
Quindi c'è un filo
conduttore tra educazione di genere nelle scuole primarie e scelte successive?
Alla
scuola primaria c'è una fase di "addestramento", di incameramento di
determinati stereotipi. Poi, durante la scuola media, c'è il primo grande
momento di scelta e tutti questi stereotipi vengono a galla: già in terza media
le ragazze cominciano ad incanalarsi verso certi istituti superiori e i ragazzi
verso altri, e questa spaccatura, anziché attenuarsi nel corso del tempo, si fa
sempre più profonda. Se si analizzano le statistiche sulle immatricolazioni ai
corsi di laurea universitari citate nel testo "Gabbie di genere. Retaggi sessisti
e scelte formative" si nota che nell'area relativa all'insegnamento abbiamo il 92% di ragazze;
nell'area linguistica l'81%; nell'area psicologica il 78%. Mentre invece a
ingegneria le ragazze sono il 23% e nell'area scientifica sono il 26%.
Sei partita dai bambini
per arrivare agli studenti universitari; come è nato questo interesse?
Volevo
arrivare a indagare quali sono le conseguenze dell'educazione sessista.
L'opinione pubblica tende a veicolare l'idea in base alla quale la scuola è un
"luogo di parità", dove non esistono più discriminazioni di genere. Vengono
conclamati i successi scolastici delle studentesse che si diplomano e si
laureano prima dei loro coetanei maschi, con voti mediamente superiori: questo
quadro farebbe supporre che le ragazze oggi siano vincenti nel sistema
scolastico-formativo e in quello accademico.
Ma
basta approfondire la questione con ricerche più qualitative per rendersi conto
della tesi esattamente opposta: la scuola italiana, anziché promuovere pari
opportunità, tende a ribadire e in qualche modo istituzionalizzare tutta una
serie di retaggi sessisti che bambine e bambini hanno incamerato nel contesto
familiare (e non solo) fin dalla più tenera età. Anziché essere un correttivo
delle disuguaglianze, la scuola non fa che sottolinearle e istituzionalizzarle.
I
percorsi di studio scelti dalle ragazze sono quelli che portano a lavori con un
livello anche retributivo decisamente inferiore a quello dei ragazzi. Stiamo
dicendo alle ragazze che avere uno stipendio accessorio in famiglia può andar
bene, mentre per un ragazzo, che da adulto dovrà assumere il ruolo di
capofamiglia, quelle professioni lì (insegnamento, cura, ecc.), non sono
adatte.
È chiara l'importanza
di un'educazione di genere fin da piccoli. Ma da che età, Silvia, è efficace e
ha senso parlare di educazione di genere?
Da
subito, già dal nido! Chiaramente per i più piccoli è difficile realizzare
progetti strutturati, tuttavia ci sono tutta una serie di attenzioni che si
possono mettere in campo, ad esempio nella scelta dei giocattoli, degli albi
illustrati, delle storie da raccontare; inoltre, nella sistemazione dello
spazio, nell'uso dei colori, ecc. Persino il linguaggio usato dalle educatrici
può agevolare l'educazione di genere: per salutare si può usare la formula
"buongiorno bambine e bambini", oppure si possono nominare le professioni anche
al femminile, ecc. Come sappiamo, il rischio insito nel linguaggio è che il
femminile venga assorbito da formulazioni al maschile-finto-neutro e che le
bambine non trovino spazi per sé, per autorappresentarsi, per esserci. Poi,
alcune attività già dal nido possono suggerire rappresentazioni di ruolo più
sfaccettate del consueto: uno degli esempi più dirompenti, e semplici, è
un'educatrice che si avvicina all'angolo delle bambole e dice "adesso facciamo
il gioco del papà", prendendo il bambolotto per accudirlo.
Passando
alla scuola dell'infanzia, poi, sono gli studi di Psicologia sociale a dirci
una cosa importante. Quando i bambini entrano alla scuola dell'infanzia, quindi
a 3 anni, già conoscono i principali stereotipi di genere, in particolare
quelli connessi ai ruoli familiari e professionali (tanto per capirci: "chi" fa
"che cosa", in casa e fuori). Quando escono dalla scuola dell'infanzia, a 6
anni, li usano. Per se stessi e per gli altri. Fin da questo livello sarebbe
fondamentale iniziare a contrastare la formazione di stereotipi, o almeno
"ammorbidirli", attraverso percorsi un po' più impostati. Questo ovviamente ci
ricorda che è molto importante la formazione delle educatrici e degli/lle
insegnanti (durante gli studi o quando sono già in servizio), questione che in
Italia, al momento, rimane irrisolta.
Irene, la ricerca che
hai condotto con gli universitari ha confermato molte delle tue ipotesi. Ci
sono invece risultati che hanno sorpreso?
I
dati inattesi riguardano le motivazioni differenti che spingono le ragazze e i
ragazzi a intraprendere percorsi formativi "atipici". La scelta delle ragazze di iscriversi a ingegneria, a informatica
o a percorsi tecnologico-scientifici in realtà è una scelta abbastanza serena,
tranquilla, spesso anche non molto ragionata. Se si vanno a vedere i percorsi
delle ragazze che ho intervistato si tratta, per esempio, di ragazze che erano
alle superiori studentesse eccellenti, che, appunto, amavano già le materie
scientifiche e quindi non hanno visto niente di strano nell'iscriversi a queste
facoltà. Una buona parte del campione femminile approda a queste facoltà
ultra-mascolinizzate quasi senza la consapevolezza di entrare in un ambiente
maschile: è come se fosse una scelta maturata per inerzia. Ci sono ragazze che
il primo giorno a lezione all'università si guardano intorno quasi sbigottite e
si chiedono dove siano le altre ragazze. La maggior parte dei ragazzi che ho
intervistato invece decide di iscriversi a facoltà "atipiche" (scienze
infermieristiche, scienze dell'educazione, ecc) in età più avanzata: non
maturano questa scelta a 18-20 anni, subito dopo il diploma di scuola
superiore, ma verso i 25-30 anni. Del resto, come ci dimostrano altri studi,
più le scelte di studio sono precoci, più saranno stereotipate. Dalla ricerca
emerge che le decisioni operate dai ragazzi sono frutto di percorsi assai
tortuosi e tormentati. L'idea di poter diventare maestro, infermiere,
assistente sociale è raramente contemplata durante gli anni della secondaria
superiore ma matura successivamente, grazie a certe esperienze di vita che
determinano rotture nette con il passato. Nelle
testimonianze maschili troviamo il racconto di momenti cruciali della vita che
creano una separazione netta tra un "prima" segnato da confusione, malcontento,
incertezza, in cui non si sa bene che direzione dare alla propria vita e un
"dopo" in cui si scopre all'improvviso una passione inedita che riempie di un
nuovo significato la propria esistenza. Proprio perché la scelta matura
progressivamente, talvolta ad anni di distanza dal diploma di maturità, quando
si arriva a prendere la decisione di iscriversi a determinati corsi di laurea
all'università, essa è ferma e appassionata. Una volta che si scoprono veri
interessi o talenti inaspettati le scelte diventano all'improvviso semplici,
lineari, ed è del tutto ininfluente il fatto che risultino controcorrente.
Un
altro aspetto che ci ha colpito è il fatto che proprio questo campione di
ragazzi e ragazze che dovrebbero essere quelli più emancipati, che fanno scelte
anticonvenzionali, quando immaginano la loro futura famiglia ricadono negli
stereotipi del lavoro femminile visto come strumentale e accessorio rispetto a
quello dell'uomo, ancora considerato il breadwinner
principale. A riprova del fatto che gli stereotipi di genere sono subdoli: si
può essere anticonvenzionali in un ambito della vita (ad esempio nelle scelte
formative) mentre in altri settori si continua a fare riferimento a ruoli di
genere più tradizionali (tipicamente nella vita relazionale e familiare).
Abbiamo parlato di
educazione di genere nel suo contesto elettivo, che è quello scolastico. Silvia
pensi che la promozione dell'educazione di genere possa avvenire anche in
ambiti altri?
Idealmente,
i diversi attori sociali che si occupano di educazione - scuole, famiglie,
associazioni culturali, sportive, risorse del territorio, ecc. - dovrebbero
muoversi in modo armonico, stipulando delle alleanze e avendo in mente
obiettivi comuni per formare le giovani generazioni. Ma realizzare un "sistema
formativo integrato" che sia sensibile al genere è complicato se manca un
discorso pubblico su questo, se non c'è la voglia di occuparcene tutti,
ciascuno nel proprio settore di responsabilità. Dobbiamo ribadire con fermezza
che è un tema che ci coinvolge, in ogni aspetto della vita, e che riguarda il
fondamento stesso della democrazia: l'accesso ai diritti, il costrutto di
cittadinanza, le pari opportunità per tutte le differenze, la lotta contro le
discriminazioni. Lo so, sono parole importanti e il rischio è che sembrino
retoriche. Eppure rappresentano l'obiettivo ultimo dell'educazione di genere.
Non
disperiamo: noi pedagogisti/e abbiamo l'abitudine di muoverci per tempi lenti e
sappiamo che, impegnandoci tutti, il cambiamento culturale verrà. La fiducia è
quasi una nostra deformazione professionale: tanto per dire, se non pensassimo
che le situazioni difficili possono avere evoluzioni positive dovremmo chiudere
le scuole. Dunque, si tratta di fare rete con il "sistema formativo integrato"
anche sui temi di genere e proporre l'idea che la collettività affronti
l'argomento in modo ampio e capillare, ad esempio in raccordo con il mondo dei
mass-media e con quello della politica. Il nostro sguardo sul futuro deve
restare critico rispetto a fenomeni in grado di far retrocedere la situazione
italiana, ma anche aperto a implementare e sostenere germi di cambiamento. Sai
qual è la frase finale del volume Gabbie
di genere? E' stata scritta da Irene: l'ottimismo sul futuro "è l'unica
strategia per continuare a progettare, fuori dagli schemi di genere".