A cura di Francesca Diletta Iavarone
Negli
ultimi anni, con l’incremento dell’utilizzo dei social network, si sente
parlare spesso di Hate Speech,
fenomeno caratterizzato dall’incitazione all’odio declinato in vari ambiti,
razza, religione, colore, sesso. I cosiddetti “leoni da tastiera” insultano,
aggrediscono, minacciano, approfittano di occasioni favorevoli per esporre il
proprio giudizio, forse immaginando che dall’altra parte giunga un colpo
attutito o, probabilmente, non immaginando affatto, in mancanza di tempo per
formulare un pensiero; un passaggio all’atto rapidissimo, un pulsante premuto
che si ritorce ferocemente contro identità scomode o non omologate ai canoni
della cultura di appartenenza, il filtro di uno schermo che permette
l’illusione dell’anonimato e la comodità dell’incontestabilità dal vivo, che
facilita l’annullamento di freni inibitori.
Posizioni discriminatorie sono sempre esistite, la storia ce lo insegna,
comunità eteree come i social, però, concedono un ridotto investimento di
sforzi ed energie per riuscire a raggiungere un pubblico vastissimo, che possa
coalizzarsi in un sentimento di intolleranza e di odio. Gruppi e pagine
diventano il veicolo per attaccare pubblicamente ed esporre alla gogna,
ottenendo effetti anche drammatici sulle vittime designate. Le manifestazioni
dell’Hate Speech sono molteplici e, nel tempo, hanno assunto diverse
denominazioni in relazione al contenuto d’interesse. Una di esse è
riscontrabile nel Body shaming,
letteralmente derisione del corpo, che rappresenta un fenomeno estremamente
diffuso e che punta ad evidenziare, deridendoli e ridicolizzandoli, aspetti fisici
non aderenti ai canoni estetici della cultura di appartenenza. Ce n’è per tutt*
e tutto, peni e seni, natiche e muscoli, acconciature e abbigliamento. E non è
una pubblicità, ma un calderone d’odio, spesso alimentato dalla comoda
postazione della tastiera in uno studiolo, che garantisce un filtro impeccabile
e il lusso di scrollarsi di dosso la responsabilità delle proprie esternazioni.
Proprio recentemente, è stata Giovanna Botteri a rientrare nel mirino di un
gruppo di haters, i quali hanno criticato con toni aggressivi il suo aspetto
fisico, la piega dei capelli, lo stile che mostrava.
“Mi
piacerebbe che l’intera vicenda, prescindendo completamente da me, potesse
essere un momento di discussione vera, permettetemi, anche aggressiva,
sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle
televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi.”
Questo è ciò che la Botteri ha risposto alla valanga di critiche e noi,
profondamente in linea con il suo pensiero,
desideriamo proprio cercare di suscitare una riflessione sulla tematica
anche qui.
Avremmo voluto raccontare di lei per la sua carriera da giornalista, di quando
negli anni ‘80 iniziò a scrivere i primi articoli per alcune testate e fu
notata per la sua bravura e professionalità, per essere entrata in Rai ed aver
collaborato con Michele Santoro. Avremmo potuto scrivere un intero articolo, e
fortunatamente ce ne sono, sul suo approdo nella redazione esteri del TG3, del
fatto che sia diventata un’inviata speciale di spicco, attraverso servizi
mandati in onda da tutto il mondo, da zone di guerra e di povertà su tutti i
fronti. Dal focolaio della pandemia, si è trovata ad affrontare una delle
emergenze sanitarie più dure dell’ultimo secolo, permettendo a tutt* noi di
informarci su quanto stesse avvenendo e, gradualmente, iniziare ad immaginare
cosa avremmo dovuto affrontare. Malgrado fosse un personaggio pubblico, ha
sempre avuto cura di non esporre agli utenti la sua vita personale o altri
aspetti che non fossero legati al suo lavoro, perché pubblico non fosse un
lascia passare per un’invasione, indistinta e senza consenso, in ogni ambito di
vita personale. Eppure, malgrado tanta storia da poter raccontare, l’attenzione
è ricaduta sulla sua piega di capelli e il suo maglione; un maglioncino scuro,
con scollo a v, che la giornalista sfoggiava spesso durante le sue dirette,
oltre a lasciare che i capelli cadessero naturalmente sul suo viso e le sue
spalle, senza acconciature particolari,
rigorosamente grigi. A seguire l’accaduto, è stato uno dei programmi televisivi
di Mediaset con più audience (milioni di spettatori), “Striscia la Notizia”,
mandando in onda un servizio che mostrasse le critiche suscitate dal modo di
presentarsi della giornalista, anche attraverso un’immagine caricaturale che la
ritraeva in una vasca da bagno, e la sua risposta a quanto stesse avvenendo. Al
termine del servizio, Gerry Scotti ha commentato “Brava, brava Giovanna, vai
avanti così nel tuo importante lavoro e non badare a chi sta a guardare il
capello!”, con il tentativo di riportare l’attenzione sulla sua professione,
senza altri fronzoli, a differenza dello stesso video trasmesso un secondo
prima. In seguito, i conduttori, compresa Michelle Hunziker, che si è spesso
esposta in difesa delle donne e per la parità di diritti, sono stati accusati
di Body Shaming per il modo in cui i contenuti erano stati veicolati. La
conduttrice si è difesa, sostenendo che l’intenzione non fosse quella di
denigrare la reporter per il suo aspetto fisico ma di focalizzare l’attenzione
sull’accaduto raccontandolo con ironia, come i loro servizi prevedono, e di
esaltare il suo lavoro piuttosto che il suo aspetto fisico. La Botteri, giorni
dopo, ha risposto accogliendo l’intenzione alla base di quanto fosse stato
pubblicato e sostenendo di non essersi sentita attaccata.
A noi, in questa sede, interessa poco scovare il colpevole o
giudicare il buon gusto nelle cose, perché la complessità di vicende come
questa ci indica una strada che mira alla riflessione. Abbiamo parlato di
quanto i cosiddetti haters esistano a prescindere dai social network e come in
essi possano alimentare pratiche discriminatorie raggiungendo gruppi
numerosissimi. Di come, attraverso il filtro di uno schermo e a distanza, gli
stessi possano sentire di acquisire il diritto di diffondere l’odio,
rivolgendolo a identità cui non riconoscono pari dignità d’esistenza. La
televisione, malgrado il diffuso utilizzo di internet, continua a rappresentare
uno dei più importanti strumenti di
informazione a cui si affida una fetta ampissima di popolazione, che si
informa, si sensibilizza, talvolta si forma, si commuove, ride, riflette. Per
codificare tutto ciò che viene trasmesso, però, sono necessari strumenti che
non si equivalgono per tutt*, che variano in base alle proprie storie e alle
proprie occasioni di vita. Inoltre, gli spettatori non sono solo adulti ma,
spesso e volentieri, ci sono bambin* accompagnat* o semplicemente sol*, che
vengono lasciat* ad occupare il proprio tempo immers* in un bombardamento
mediatico, più o meno affidabile. Appare dunque evidente la responsabilità che
ricopre un programma televisivo, che sicuramente può affrontare tematiche
importanti e consistenti anche attraverso l’ironia, strumento potentissimo e di
grande valore, ma che forse ha il dovere di immaginare in che modo e in che
forma ciò che viene diffuso giunga allo spettatore, nel marasma già consistente
di contenuti discriminatori e disumanizzanti. Per anni, la televisione ha
mandato in onda programmi che veicolavano rappresentazioni irrispettose della
dignità delle donne e non solo; ha voluto mostrare – e oggi continua a farlo in
varie forme – fenomeni da baraccone, bocche finte e visi impeccabilmente lisci,
seni, cosce, vallette mute e veline, “presenze di quantità e raramente di
qualità”, come racconterebbero, cogliendo a pieno la complessità del fenomeno,
Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi ne “Il corpo delle donne” (che vi
consiglio, lasciandovi il link di youtube
https://www.youtube.com/watchv=HRiWySgOS3A&t=770s).
Ci sono generazioni che sono cresciute osservando passivamente un circo,
sessista e omologante, che trattava la donna come oggetto sessuale, svilendola,
mostrandola sotto un tavolo di vetro, mentre un uomo conduttore portava avanti
lo spettacolo.
Sarebbe interessante, oggi, osservare una rivoluzione nella scelta dei
contenuti veicolati da parte di tutti i programmi, una profonda assunzione di
responsabilità verso chi ascolta e guarda, perché la realtà è molto diversa dai
canoni estetici proposti e dalla leggerezza imposta alla donna che racconta
esclusivamente di unghie o farine. Non che non rappresentino competenze, ma a
questo contenuto, sarebbe necessario aggiungere anche quelle che vadano oltre
il focolare domestico, includendo tutti gli ambiti esistenti, non occultando
aspetti fisici comuni, reali. Perché non si tratta di rivendicare pari diritti
dell’uomo per un capriccio, spesso attribuito alla donna, d’altronde, anche in
occasione del ciclo mestruale, ma per la realtà dei fatti, per la dignità di
esistenza di ciò che non è autorizzato a passare in uno schermo. Le notizie
false possono essere veicolate anche attraverso l’ironia, non è importante solo
l’intenzione ma la cura di orecchie e occhi che si trovano coinvolti in essa e
che ne sono inevitabilmente segnati. Giovanna Botteri è un esempio di realtà
che sembra scomoda, che rischia di essere accostata ad un’ironia inconsistente
e passibile di interpretazioni errate sulla forma, non siliconata, non scoperta
e non oggettivizzata, piuttosto che far emergere il suo contenuto solido e
forte.
Non chiuderò con “brava Giovanna, brava”, anche perché rievoca inevitabilmente
una pubblicità sessista famosissima, mandata in onda nei primi anni 2000, che
mostrava una donna intenta a colorare una ringhiera con la vernice “Saratoga”,
mentre un uomo osservava le sue cosce e le sue natiche, rendendola
immediatamente oggetto di desiderio e sessuale, senza alcun nesso con il
prodotto messo in commercio (ma, di certo, potrete favi da voi un’idea qui https://www.youtube.com/watch?v=mIrnJzCkfJU).
Chiudo, invece, con la speranza che questa occasione
spiacevole, in cui è stata coinvolta la reporter a partire dai social network,
possa essere uno spunto di approfondimento per le prossime, come lei stessa
auspica. Inoltre, che tutt* si sentano responsabili quando si cerca di
barattare la dignità di una persona per ottenere un tornaconto o un
riconoscimento personale, quando si scherza senza un pensiero che sostenga il
gioco, quando ci si accosta con troppa leggerezza a questioni di genere che,
ancora oggi, devono essere affrontate con forza e determinazione.