A cura di Francesca Diletta Iavarone
Il
modo naturale di esprimersi del bambino, il suo linguaggio, è il gioco; le
prime forme passano attraverso la fisicità, nel contatto con il corpo di chi se
ne prende cura e con il proprio, tra suzione e manipolazione, sguardi ed
esplorazione dell’ambiente circostante. Le attività ludiche si modificano, nel
tempo, in relazione allo sviluppo intellettivo e psichico del bambino,
arricchendosi, strutturandosi e caratterizzandosi per soddisfare le esigenze
diverse di ciascuna tappa della crescita. Il giocattolo, infatti, appare
successivamente, rappresentando un passaggio importante nel processo evolutivo
poiché raccoglie su di sé l’investimento psichico che prima era rivolto
esclusivamente al corpo o alle parti più prossime del bambino. Diviene un
oggetto significativo che aiuta quest’ultimo a separarsi dalla figura materna
per dirigersi verso l’affermazione di sé, verso la conquista della propria
autonomia psicofisica. Oltre che essere investito delle parti interne del
bambino, però, esso ha sue caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono,
come la forma, le dimensioni, il colore, acquisendo, ad un certo punto, anche
connotazioni di genere che rispecchiano le aspettative culturali della società
in cui viene costruito e nasce.
Se
il gioco, come riteniamo, contribuisce alla costruzione della personalità e
alla definizione dell’identità dell’individuo, con importanti implicazioni
sociali e culturali, è necessario prestare attenzione ai modelli che vengono
proposti sul mercato e, in questo ambito, a come vengono veicolate le
differenze e i ruoli di genere.
Il
mondo dei giocattoli, quando si rivolge ad una fascia d’età che inizia ad
esplorare la propria appartenenza o meno ad un genere, si spacca in due,
dividendosi secondo il binarismo sessuale che caratterizza la nostra società.
Mi sono chiesta, oggi, cosa vedono e con cosa si confrontano i bambini e le
bambine che entrano in un negozio di giocattoli? Quali sono i modelli da cui
ciascuno può trarre ispirazione per il proprio gioco?
Sono
entrata in diversi negozi del centro storico, raccontando di dover acquistare
un regalo sia ad un bambino che ad una bambina, tra gli 8 e i 10 anni, che però
non conoscevo approfonditamente. Ho chiesto ai negozianti di indicarmi i
giocattoli più in voga del momento o, comunque, quelli che ritenevano più
appropriati per permettermi di andare sul sicuro, per poi dedicarmi ad una
esplorazione autonoma. Ho subito notato come il binarismo di genere venisse
messo in scena immediatamente, attraverso una distinzione netta, fisica, tra
reparto femminile e reparto maschile, tra il rosa, morbido e monotono e il
multicolore, duro e spigoloso. In uno dei negozi, l’ingresso nella stanza rosa
era indicato da una grande scritta “Puoi essere tutto ciò che desideri. Barbie”
e, una volta entrata, ero circondata da bambole di tutti i tipi, Barbie
snodabile, Barbie sposa, Barbie mamma, Barbie famiglia, veterinaria,
viaggiatrice, amica, scienziata, pattinatrice, infermiera, campeggiatrice,
ballerina, fino a vedere, per la prima volta con più attenzione, la serie
Fashionistas; è stata creata per offrire modelli diversi da quello “classico”,
capelli di ogni colore o senza capelli, taglie differenti, varia nazionalità,
su sedie a rotelle o con vitiligine, a partire però già dalla possibilità di
poter essere snodabile, caratteristica acquisita solo successivamente anche
dalle altre. Il tentativo era quello di garantire la possibilità a chi ci gioca
di riconoscersi e promuovere un linea inclusiva di tutte le differenze; è stato
effettivamente interessante vedere come le case di produzione si attrezzino per
andare incontro a questa necessità. Poi mi sono girata e ho continuato a
vedermi circondata da una linea “classica”, fatta di curve ben definite, zigomi
alti, tonicità, che in qualche modo resiste, mantenendo ben chiara la
distinzione tra ciò che è “speciale” e ciò che invece è “normale”, classico
appunto. Non mi volevo accanire, quindi sono andata avanti, anche perché
talvolta sentivo di destare sospetto, con tutto il tempo che impiegavo per
scegliere cosa acquistare. Ho scoperto la bambola “Steffi”, sulla linea della
Barbie ma più accessibile economicamente; questa era davvero inequivocabile,
tra madri di famiglia, spose, cuccioli di cane al guinzaglio, sirenette,
passeggiate, mi rimandava chiaramente uno stereotipo femminile dedito
esclusivamente alla cura e al focolaio domestico. In effetti, in diversi
negozi, tra bambolotti come “Pigiamino mio”, “Morbidino mio”, “Dolci Gattoni”,
“Dolce plin plin”, “Baby bagno”, la parte in rosa era quella basata
prevalentemente sull’accudimento e sull’altruismo, dove non c’erano aspetti
avvincenti o dedicati alle abilità tecniche, stimolate invece nella parte
rivolta al maschile. Eppure, anche nella sezione “blu”, si proponeva una
rappresentazione prevalentemente machista, di durezza, come se anche i maschi
fossero destinati in qualche modo a non dedicarsi affatto ad attività di cura,
ma prevalentemente alla battaglia, alle gare e alle competizioni, da cui solo i
più forti e scaltri ne escono vincitori. Macchine, piste, motori, droni, super
eroi, si propongono come protagonisti indiscussi per la fantasia “maschile”.
Nel percorso che ho fatto mi sono imbattuta anche nei vecchi Lego; ho avuto
sempre l’idea che proprio questi potessero essere accessibili sia ai bambini
che alle bambine, indistintamente, che potessero permettere di sviluppare le
stesse abilità ad entrambi. Eppure, anche la Lego, ha deciso di dedicare una
linea declinata al femminile, “Lego Friends”. Inevitabilmente rosa, in cui
sceriffi, navi e super eroi lasciano
spazio alle amiche alla moda, decappottabili rosa, cavalli, drink, piscine e
shopping, più semplici e intuitivi da costruire. In tutto questo, qual è il
messaggio che passa? Sembra che il pensiero comune per i più piccoli, che si
manifesta anche in ciò che il mercato di massa propone, continui a valorizzare
per la donna la bellezza e la fragilità più che “il saper fare”, per l’uomo la
forza e la compattezza più che la cura. Sembra una questione ridondante,
effettivamente lo è. Roland Barthes, in “Miti di oggi”, sosteneva già il
tentativo della società di proporre, attraverso i giocattoli, un “microcosmo
adulto”, sotto forma di riproduzioni umane stereotipate in formato ridotto, non
rendendo il gioco territorio neutrale in cui esplorare e scoprirsi, ma uno già
direzionato all’acquisizione di ruoli prestabiliti. Ancora oggi, come sostiene
Lucia Pietroni nel suo articolo “Il design del giocattolo e l’identità di
genere”, la maggior parte dei produttori e dei designer di giocattoli non
sembrano domandarsi sulle implicazioni identitarie e sociali a cui conduce la
proposta di ruoli maschili e femminili evidentemente stereotipati, quando la
nostra società necessità proprio di promuovere programmi inclusivi e volti alle
pari opportunità. La proposta del mercato, oggi, rischia di amplificare gli
stereotipi di genere, senza lasciare la possibilità di un’esplorazione
identitaria libera, quando proprio il gioco è il primo modo che il bambino ha
per farlo, anche in autonomia. Che si declini
in attività ludiche all’aperto, nell’utilizzo di giocattoli, nei viaggi
fantasiosi che accompagnano le favole, il gioco rappresenta una risorsa per
l’espressione di conflitti, del dolore, della gratitudine, delle speranze, dei
desideri, dell’intera costellazione del proprio vissuto emotivo. Contaminato da
definizioni stereotipate, l’esplorazione identitaria di ogni individuo, che ha
anche la possibilità di acquistare un giocattolo, a lungo andare, rischia di
incanalarsi senza un riconoscimento profondo e autentico, limitandosi ad
entrare in un tunnel blu o in uno rosa. Ritornando allo slogan “puoi essere
tutto ciò che desideri”, il desiderio di
cui parla sembra anticipato, ovvero che nasca dall’esterno ancora prima di
emergere dall’interno in ragione di una mancanza, è un desiderio già sazio;
chiede di scegliere ciò che si vuole essere, piuttosto che aprire la porta di
una stanza in cui è permessa una ricerca intima di ciò che si è.