A cura di Cecilia Montella
“Ogni bambino ha bisogno di una
mamma ed un papà”, “E’ necessario che i bambini abbiano una figura maschile ed
una femminile di riferimento”, “due mamme o due papà non possono essere
genitori”: queste, come molte altre, sono le frasi che spesso si ascoltano nel
momento in cui si tratta il tema tanto attuale quanto delicato
dell’omogenitorialità.
Ma cosa vuol dire essere genitori? E soprattutto, il genere
o l’orientamento sessuale dei genitori può influenzare le loro capacità di
essere madri o padri “sufficientemente buoni”?
Oggi sappiamo che essere genitori
non significa soltanto mettere al mondo dei figli e neppure semplicemente dare
cure a qualcuno che ne ha bisogno. Esercitare una funzione genitoriale adeguata
vuol dire fornirsi di uno spazio mentale e soprattutto relazionale dove un “tu”
può nascere in sicurezza e, piano piano, sentirsi se stesso perché autonomo e
perché pensato da qualcuno.
La funzione genitoriale comprende
una serie di sotto-funzioni:
• Provvedere all’altro: conoscerne l’aspetto, il funzionamento
corporeo, mentale e le emozioni;
• Garantire protezione: creare interazioni e relazioni che
garantiscano l’accudimento e rispondano ai bisogni di protezione;
• Entrare in risonanza affettiva con l’altro;
• Garantire regolazione: mettere l’altro nella condizione di regolare
i propri stati affettivi e i propri comportamenti;
• Dare dei limiti, una struttura di riferimento, un format (cioè
esercitare una funzione normativa);
• Garantire una funzione transgenerazionale, immettere l’altro in una
storia, in una narrazione dalla quale emerge una continuità simbolica o
generazionale.
Come possiamo osservare, nessuna
di queste funzioni si riferisce ad un genere specifico, anche se esse sono
state storicamente e stereotipicamente associate ai due generi differenti. Per
esempio alla “maternità” viene solitamente attribuita la funzione di cura e di
soddisfacimento dei bisogni del bambino, mentre alla “paternità” viene attribuita
una funzione più normativa.
Questa divisione dei “ruoli genitoriali”, però, si
fonda sullo stereotipo per cui la donna sarebbe accogliente, sensibile,
empatica e quindi capace di soddisfare i bisogni del bambino, mentre l’uomo
forte, autoritario e quindi avrebbe il compito di stabilire le regole della
famiglia e di farle rispettare. Come risaputo, tuttavia, gli stereotipi servono
alla mente umana per semplificare la realità e forniscono una visione ristretta
e parziale del mondo; per questo risulta importante riuscire a sganciare le
funzioni e i ruoli dal genere di appartenenza dei genitori.
Una mamma, ad
esempio, non è detto che sia “amorevole” e che si dedichi alla cura dei
piccoli, come un padre non è detto che sia autoritario e normativo. Andando in
questo senso anche gli aggettivi “materno” e “paterno” andrebbero spogliati dei
propri significati: chi non ha mai sentito frasi del tipo “devi fare il padre,
fatti rispettare!” oppure “è una donna molto materna, si prende cura degli
altri”? Difficilmente questi aggettivi con le funzioni a loro annesse si
potrebbero attribuire al genere opposto, definendo quindi un uomo “materno” o
una donna “paterna”, eppure sappiamo che le funzioni genitoriali non hanno alcun
legame biologico o “naturale” con il genere, ma solo una connessione culturale
e sociale legata al ruolo e alle funzioni della madre e
del padre.
Le funzioni genitoriali, dunque, possono
essere esercitate anche in contesti familiari in cui i ruoli non sono necessariamente
legati a differenze di genere dei partners, come nel caso delle famiglie
omogenitoriali. Due padri o due madri possono esercitare tutte le funzioni
citate all’inizio, a prescindere dal loro genere e dal loro orientamento
sessuale.
A sostenere tale ragionamento
teorico subentrano anche le ricerche scientifiche: l’Associazione Italiana di
Psicologia (AIP, 2011) ricorda che le affermazioni secondo cui i bambini, per
crescere bene, avrebbero bisogno di una madre e un padre, non trovano riscontro
nella ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo
psico-sociale degli individui. Inoltre la maggioranza delle ricerche mostra
come i figli dei genitori omosessuali abbiano uno sviluppo equilibrato ed
adattato e buone relazioni con coetanei ed adulti in percentuale sovrapponibile
a quello dei figli di eterosessuali, e non presentino un'incidenza maggiore di
omosessualità o problemi legati all'identità di genere (Vaughan 2008, Tasker
2010).
Tutti gli autori sono concordi
nel sottolineare come molti dei problemi che le famiglie omoparentali
incontrano siano effetti secondari del pregiudizio. La stigmatizzazione che i
bambini con due mamme o due papà e le loro famiglie possono subire è certamente
un aspetto importante che influisce sul loro sviluppo e li può colpire sia
direttamente, sia indirettamente, minando l'armonia e il buon funzionamento
della famiglia. Il benessere psicologico personale del genitore omosessuale,
che ha impatto immediato su quello del figlio, è comprensibilmente correlato al
grado di dichiarabilità e di accettazione della propria identità nell'ambito
della famiglia d'origine e dell'ambiente sociale e lavorativo, e, come per le
famiglie monoparentali, al grado di sostegno familiare e sociale su cui può
contare.
A questo riguardo sembra cruciale
l'affermazione di Lingiardi (2007) su come una realtà sia più facilmente
riconosciuta come normale quando è normata e, per fortuna, l’essere padri o
madri omosessuali sta diventando un fenomeno sempre più visibile e normalizzato.
Secondo i dati dell'Istituto Superiore di Sanità, in Italia sarebbero circa
centomila i figli cresciuti da genitori omosessuali, in Francia più del doppio,
negli Stati Uniti si stima che i genitori omosessuali siano tra i 6 e i 10
milioni, e circa 14 milioni i loro figli, compresi quelli nati da relazioni
eterosessuali (Lingiardi 2007).
La realtà oggi si presenta in
modo multiformee non può più essere codificata o decodificata attraverso
criteri orientati a definire come disfunzionalità tutto ciò che devia dalla
standardizzazione normativa di un modello (quello coniugale nucleare di tipo
eterosessuale) inteso come unico termine di comparazione. Risulta, quindi,
necessario adottare una prospettiva pluralista, che faccia emergere la
possibilità di classificare le molteplici forme familiari/genitoriali,
all’interno di un’ottica inclusiva e non stigmatizzante, presentando la
pluralità come valore, ricchezza, possibilità, e non come minaccia, disordine,
crisi.
In un’ottica d’inclusione e di rispetto dell’altro, che possa
trasformare la differenza in ricchezza è opportuno considerare le strutture
concettuali e sociali non come rigide e precostituite, ma come adattabili e
duttili in relazione alle trasformazioni sociali e culturali.