A cura di Francesca Diletta Iavarone
Associo l’arte a una
voce, a un linguaggio, a un modo per dire, per essere e per diventare. Nella
storia dell’essere umano è stata espressione di interiorità, di emozioni che
rinunciano alla necessità di parole. Ha permesso di entrare in case
sconosciute, dimore di suggestioni in cui ritrovarsi, luoghi inesplorati
dall’intelletto ma ben riconoscibili dalle passioni. È stata ed è espressione
di sentimenti, di culti, di culture, di atti politici, di estetica, di oblio e
di ricordi, di tutto il potenziale umano che si serve di uno strumento; dal
corpo, alla voce, all’odore, agli occhi, all’ascolto. Forse è un modo per
esistere e resistere di fronte alla costante ed insistente messa alla prova
dell’integrità umana, e su questo la letteratura psicoanalitica ci offre un
panorama vastissimo.
L’esistenza, quando
oscurata e messa in ombra, nell’arte può prendere luce e respirare. Può far
emergere delle identità, dei volti che resistevano sfocati all’occhio esterno e
attraversati, calpestati da musi duri, miopi e culturalmente legittimati. Anche
un corpo transgender, in troppi Paesi ancora rifiutato e confinato, però, nelle
arti visive si propone per farsi riconoscere. Diversi artisti, in questo ambito,
ci hanno raccontato delle storie, rinunciando a spiegazioni articolate,
offrendo invece ad occhi vivi la possibilità di sbirciare nelle camere intime
di alcune esistenze. Uno degli artisti a cui mi riferisco è Christer Strömholm, fotografo svedese, che concepì “Les nuits de Place Blanche”, una
raccolta fotografica che ritraeva una comunità di transessuali parigini.
Stromholm aveva scelto Parigi in un momento estremamente complesso per
l’esistenza umana. I primi del ‘900 furono anni di fermento artistico, un
turbinio di idee, suggestioni, che spingevano la vita, la muovevano, la
scuotevano. Diedero ossigeno alle aspirazioni, ai desideri di vita e di
libertà. Poi, si fermò tutto, la Grande Guerra gelò, immobilizzò, interruppe il
respiro.
Quando terminò, il desiderio di ripresa, di vita, si impose
prepotente. Anche quello di Strömholm che, così, decise di recuperare ciò
che era stato interrotto, prendendo parte al progetto Fotoform e immergendosi, delicatamente, nell’intimità di una comunità
transgender. Un lavoro complesso e profondo, che illumina la vita notturna di
Parigi degli anni ’50 e ’60 e suggerisce una riflessione
sull’autodeterminazione di ciascuno nell’esprimere la propria identità e
libertà, non oscurando punti di forza e fragilità dell’essere umano.
Un altro sguardo,
distante dalla retorica e partecipe autentico ai “fatti” umani, è quello di
Luciano Ferrara, fotografo napoletano che si è dedicato ad un lavoro quasi
trentennale con i “Femminielli”. Questo termine stava e sta tuttora ad indicare
un’integrazione del maschile e del femminile, un dualismo o meglio una
duplicità, che conferisce a chi si definisce “femminiello”, una natura altra,
fluida, che a Napoli assume delle caratteristiche specifiche. Un termine
maschile che però si declina al femminile e che incorpora in sé diverse forme
di sessualità. Fino agli anni ’70 vestirsi con abiti femminili, per un uomo,
era vietato dalla legge; una sentenza, poi successivamente accolta, stabilì che
non fosse più reato e la figura del femminiello cominciò ad entrare nell’immaginario
collettivo, da che era confinato nei vicoli della città. A Napoli, però, non è
stato ghettizzato, questa figura ha rappresentato l’espressione d’identità, che
venivano e vengono accolte e coinvolte nel tessuto sociale sotto diverse forme.
Non solo folklore, che anche ha una sua storia importante, ma soprattutto figura
rispettata, che ricopre un ruolo anche sociale quasi fondamentale.
Con “Resbis
– Il dualismo dei Femminielli”, Luciano Ferrara ha proposto una visione sulla
trasfigurazione del corpo, sulla necessità e la libertà di stare in una
duplicità, da “res bis”, “due volte”, o semplicemente nel proprio genere. Anche
nel modo di presentare le opere, tagliate e riassemblate tra loro, esterna una
pluralità, una complessità, che si manifesta poi come unicum, in un solo pezzo.
Nel suo reportage, tra la Sanità, via Toledo, il Rettifilo, ha documentato
senza giudizio morale modificazioni corporee e identità che solitamente vengono
selezionate come “minoranze”.
Spostandoci un po’
più lontano, non solo come luogo ma come tipo di proposta artistica, c’è David
LaChappelle, fotografo statunitense con uno stile surreale e talvolta
caricaturale, che rientra nella corrente della Pop Art. Ha lavorato per molte
riviste celebri, collaborato a videoclip musicali, a pubblicità, ritratto icone
come Michael Jackson, Uma Thurman o Madonna, politici, sportivi, che hanno
accresciuto pian piano la sua fama. Le sue opere vengono descritte come
barocche, piene di colori accesi in rappresentazioni di paesaggi onirici. Si
muove tra aspetti sacrali e mitologici, tra la pubblicità e il surreale
spingendosi dove la sua immaginazione arriva.Fu negli anni ’80 che il suo
percorso espositivo fotografico iniziò e venne caratterizzato dalla denuncia
agli eccessi, alla smania di soddisfazione e piacere, al superfluo, al
consumismo, all’apparire vuoto; venivano mostrati colori elettrici e corpi
nudi, oleosi, arroganti e seducenti.Fece dialogare set cinematografici
hollywoodiani e messaggi sociali scomodi per i tempi che correvano; negli anni
’90, negli USA, alle persone LGBTQ era vietato arruolarsi nelle forze armate e,
in effetti, in uno dei quadri di LaChappelle sono proprio due marinai a
baciarsi in primo piano. È nel suo mondo fotografico che si inserisce anche Amanda
Lepore, la sua Musa, una delle icone che ha contribuito alla visibilità e alla
battaglia per i diritti LGBTQ, anche se lei non ha mai amato definirsi
un’attivista. Venne notata dal fotografo in un bar di New York in cui lavorava
e le venne chiesto di posare per lui come modella, per poi diventare protagonista
indiscussa di molteplici lavori e con lei la sua evoluzione identitaria.È
un’opera d’arte vivente, senza tempo, che ha esternato la sua lotta per
diventare ciò in cui poteva riconoscersi, sentirsi viva, dopo che già undicenne
cominciò a rifiutarsi di vestirsi con abiti maschili ed essere respinta per la
sua verità.
Attraverso la moda, la sua carriera che avanzava tra importanti
riviste, vestiti brillanti e video musicali, ha dichiarato la sua libertà e la
sua vittoria. È uscita fuori, in maniera esplosiva, mostrandosi sotto un gran
numero di riflettori anche per chi lì non ci poteva stare. Ha scelto di farlo
con uno stile, avvicinandosi quanto più possibile all’idea di sé, un corpo
sinuoso e un biondo platino che è rimasto impresso nell’immaginario mondiale.
Tra Strömholm, Ferrara e
LaChappelle ritrovo un filo, l’azzardo di dire verità scomode, di raccontarle, anche
se con modalità diverse; da un movimento in punta di piedi e silenzioso ad uno
vistoso ed eclatante. Questi tre artisti rappresentano solo alcuni importanti
esempi di coloro che hanno osato dialogare con la trasformazione identitaria
dell’essere umano, in un tempo in cui sembra che la sua idea abbia fatto e faccia
ancora tremare.
Il 15 novembre 2019,
ci sarà la possibilità di assistere alla mostra di Paolo Titolo, fotografo
italiano, in occasione del Congresso internazionale “Buone pratiche nella
salute, nelle politiche sociali e nei diritti umani delle persone transgender:un
confronto tra Europa e America Latina”, che si terrà a Napoli. Egli ha
realizzato alcuni lavori, tra i tanti, sulla realtà della società cubana, dove
ha poi deciso di trasferirsi. In particolare, in questo evento presenterà
“Translucida”, a cura di Raffaele Loffredo, che propone un’esplorazione
dell’identità di genere e dei diritti della “comunità” transessuale di Cuba.
Lontano da una scarna intenzione esplicativa della questione, per fare questo
coglie l’autenticità dei suoi ritratti, l’umanità, facendo emergere le verità
di ciò che fotografa, svestendosi di qualsivoglia giudizio morale. Un’ulteriore
e importante occasione per smuovere e accendere le coscienze.