A cura di Mariano Gianola
Nella nostra società, ma anche in altri contesti, prevale un assetto ideologico caratterizzato dal
genderismo.
Ciò implica che, rispetto la dimensione del genere sessuale, è considerata normale solamente
l'appartenenza al genere maschile (per chi nasce con una conformazione cromosomica XY, cioè con un
corpo da maschio) oppure a quello femminile (per chi nasce con un cromosomi XX, cioè con un
corpo considerato femminile).
In realtà, come la letteratura sul tema evidenzia, tale concezione è riduttiva perché non considera
l'esistenza di altre forme di genere. Ciò significa che maschile e femminile possono contemplare
numerose possibilità e sfumature che sono soggettivamente connesse all'identità di una persona
(Valerio, P., Scandurra C., Amodeo, A. L., a cura di, 2014).
La parola genere esprime, quindi, un concetto multidimensionale e plurale. Per tale motivo, bisogna
considerare e tutelare quelle identificazioni, espressioni, ruoli, percezioni, aspettative e
comportamenti che si pongono tra il maschile ed il femminile come delle possibilità legate alla persona
in quanto rappresentano parte della propria identità e sinonimo di appartenenza psicologica,
sociale, culturale e simbolica.
Ogni individuo, quindi, ha una propria collocazione all'interno del
genere sessuale manifestando la propria percezione, espressione, e declinazione tra le categorie definite
come maschile e femminile (Valerio, P., Scandurra C., Amodeo, A. L., a cura di, 2014).
Il genere sessuale non è una dimensione legata meramente all'identificazione personale e/o alla
percezione di considerarsi (ed essere considerato) maschio, femmina o sentirsi appartenere a entrambi
tali etichette. Altri aspetti legati a tale dimensione sono rappresentati dalle espressioni del genere
oppure dai ruoli di genere.
In relazione a tali elementi, si crede impropriamente – in base a una stereotipia socialmente
costruita e legata all'immaginario culturalmente condiviso – che maschi e femmine debbano
necessariamente esprimersi, comportarsi e aderire a una determinata “tipicità” (Valerio, P.,
Scandurra C., Amodeo, A. L., a cura di, 2014).
Questa concezione rappresenta veicolo di apprendimento già dall'infanzia. A bambini maschi,
infatti, viene assegnato un colore rappresentante simbolicamente lo stereotipo di mascolinità
(rappresentato dal celeste), credendo che la propria “strada identitaria” sia quella del giocare, ad
esempio, a calcetto, con macchinine, armi finte e, inoltre, educando lo stesso minore che “deve
essere” forte oppure non deve piangere in pubblico (molto spesso, attraverso espressioni lessicali
come: “Non piangere, mica sei una femminuccia!”). Lo stesso viene fatto nei confronti delle bambine le
quali, molto spesso, oltre che a vedersi associate un colore rosa come simbolicamente identificativo.
vengono educate, per esempio, all'idea dell'essere delicate oppure che non è corretto vederle
arrampicare su un muretto e/o fare giochi che, secondo il contesto sociale di appartenenza, sono
considerate da maschi (come il calcio o la boxe).
Quello che rappresenta fonte di frustrazione, disagio e discriminazione non è legato al fatto che un
maschietto possa desiderare di giocare a calcio e uniformarsi unicamente ai comportamenti, alle
identificazioni, alle espressioni e ai ruoli considerate propri del genere che gli è stato assegnato (quello
maschile). Lo stesso vale anche nei confronti delle femmine che sentono di essere delicate e che
desiderano giocare meramente con i giochi considerati tipicamente femminili e/o adeguandosi ai
comportamenti che sono legati alla desiderabilità sociale del proprio genere.
La mancata tutela della libertà personale e dell'autodeterminazione nascono quando non si
rispettano, a causa di idee stereotipicamente interiorizzate, quelle persone (e, quindi, anche quei
bambini) che – sia in parte che globalmente – non intendono conformarsi a identificazioni,
espressioni, aspettative, ruoli e comportamenti che sono considerati “fortemente caratteristici” di un
determinato genere sessuale.
Per citare un esempio, bambini maschi che intendono frequentare corsi di danza sono, spesso, visti
come persone che presentano un problema e, per tale motivo, sono soggetti a esperire prevaricazioni
e disagi tanto che gli aspetti del genere che non rientrano all'interno degli stereotipi socialmente
condivisi rappresentano motivo di disapprovazione e “repressione”.
In tal modo, la libertà di espressione non viene garantita, rispettata e riconosciuta.
Per tali motivazioni, risulta sempre crescente l'esigenza di implementare percorsi – di varia natura –
miranti a sostenere il diritto all'autodeterminazione, al fine di rispettare le differenti forme di
identità, comprese quelle declinazioni e quelle sfumature che non sono conformi a standard di
“approvazione e desiderabilità sociale”.
Sostenere percorsi finalizzati a favorire consapevolezze e informazione corretta, promuovendo
assetti ideologici che contemplino il rispetto dell'alterità, in tutte le sue forme, dovrebbe essere un
obiettivo da considerare tra quelli fondamentali in ogni contesto sociale.
Gli interventi di sensibilizzazione finalizzati alla “lotta” allo stigma e alle prevaricazioni dovrebbero
costituire “buone prassi” da implementare nei vari settori della società civile: contesti scolastici,
universitari, formativi e, altresì, in assetti gruppali e lavorativi.
Promuovere la formazione e l'interiorizzazione di sane consapevolezze significa sostenere assetti
inclusivi ed aperti alle varie forme di identità individuali e e collettive.