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Donne e migrazioni

Donna nigeriana


A cura di Daniela Scafaro

Cosa significa la migrazione per una donna?
Me lo sono chiesta tante volte.
Abbandonare la propria terra, i propri legami, sradicarsi e fare un salto nell’ignoto nella speranza di un futuro migliore, affrontando incertezze, miseria, dolore, violenza…
Mi sono sempre chiesta da quale orrore si fugga per intraprendere il cammino della migrazione, immaginando forse poco che il percorso e la “meta” ne siano altrettanto profondamente intrisi. E allora ho cercato qualcuno che potesse rispondere alle mie domande, aiutarmi ad aprire gli occhi sull’orrore che forse, nel profondo, tutti sospettiamo ma rispetto al quale voltiamo la faccia, indifferenti.
Quello che oggi racconto, probabilmente in maniera imprecisa, è il mio viaggio in questo orrore attraverso gli occhi di Lavinia, una donna che si occupa di donne migranti vittime di tratta.
Da sempre affascinata dalle altre culture, dal femminile nelle sue caleidoscopiche sfaccettature, Lavinia mi racconta di aver cominciato ad interessarsi di processi migratori ai tempi dell’università, con il corso di etnopsicopatologia. Dall’intreccio delle sue passioni e con l’incontro di un’associazione che si occupa di “donne di strada” nasce in lei il desiderio di comprendere come tutte queste dimensioni si intreccino.
Nella nostra telefonata, ripercorrendo insieme le tappe che l’hanno condotta ad occuparsi di queste questioni, Lavinia si domanda: “I migranti sono tutti uguali?”; “La migrazione per le donne è la stessa che per gli uomini?”; “Cosa significa essere donna, madre e migrante?”.
Le chiedo cosa si sia risposta dopo tanti anni.
Lavinia mi risponde implicitamente raccontandomi alcune storie di donne che ha conosciuto ed aiutato; mi mette di fronte all’orrore, lasciando a me la risposta.
Mi racconta storie tremendamente dolorose ma di riscatto.
Hadya è fuggita dalla Nigeria a seguito della morte di suo marito. Il loro era un matrimonio felice nonostante le differenze religiose (lui musulmano, lei cristiana), avessero creato attriti tra le famiglie. Quando suo marito muore la situazione precipita perché la famiglia di lui gliene attribuisce la colpa e nega il riconoscimento dei bambini, insinuando che non fossero figli dell’uomo, tanto da provare ad avvelenarne uno. Di fronte al pericolo Hadya fugge e trova rifugio nel paese materno. Deve però rimboccarsi le maniche per portare avanti la sua famiglia e, benché con immenso dolore, decide di partire in cerca di fortuna, lasciando i bambini a sua madre. Diretta in Italia, arrivata in Libia, viene condotta, da coloro che promettevano di aiutarla a riscattarsi, in una casa nel deserto dove, legata e resa inerme, viene seviziata e sottoposta a stupri di massa, minacciata con una pistola puntata tra le gambe, a mortificare quell’intimità già violata, distrutta. Lavinia mi racconta che quando Hadya le ha raccontato la sua storia il suo sguardo era perso in un altrove inafferrabile, forse in quell’alienazione-distacco che le ha permesso di “difendersi” dallo scempio cui veniva sottoposta, di restare in vita estraniandosi da sé.
Kahfee invece è scappata dalla Costa d'Avorio, all’età di diciotto anni, per sfuggire ad una mutilazione vaginale, imposta dal padre. La prima volta viene stuprata da uno zio che la rintraccia, rimanendo incinta. Decide di non abortire e, in cerca di un lavoro che le possa consentire di emanciparsi e di avere un futuro migliore per sé e suo figlio, si affida, insieme al fratello, ad una persona che, invece, la farà lavorare in una connection house in Libia. Kahfee partorisce mentre lavora lì e per proteggere il suo bambino dallo squallore di quel posto, decide di affidarlo a suo fratello che invece lavora in un cantiere. Kahfee riesce infine a partire per l’Italia separandosi però dal fratello che l'aveva tanto aiutata. Oggi Kahfee è una futura sposa. Lavinia mi racconta dell’emozione con cui le racconta che “È bello sposarsi a maggio perché ci sono i fiori”.
Ed è così che comprendo cosa, dopo averla portata ad occuparsi di questi temi, ancora la spinga a continuare.
“Ringraziano e gioiscono di quella che per noi è una quotidianità scontata”, mi dice.
Mi fa ascoltare un audio che una delle sue care donne le ha inviato per augurarle un buon anno nuovo. È un messaggio gioioso in cui ricorre la parola grazie e in cui la ragazza le dice che “è una benedizione, come una sorella”. Lavinia mi spiega che quando pensa a questa loro capacità di resilienza, alla genuinità con cui riescono a dire ancora grazie dopo lo strazio delle violenze patite, lei si sente appagata, sente di aver fatto qualcosa che trascende le nostre singole esistenze e si sente bene.
Le chiedo cosa provi da donna ad incontrare queste donne, a raccogliere le loro storie.
Tira un sospiro profondo… Dolore. Un dolore che però dice, non è nulla a confronto di quello che passa dai loro occhi, dalle loro cicatrici del corpo e ancor più dell’anima. Sconcerto, nel pensare che troppe persone chiudono gli occhi, si voltano dall’altra parte, fanno finta o non vogliono sapere. Impotenza.
“Fa male. Come si può non domandarsi cosa le ha portate qui?”, mi chiede.
Ma ci pensi a quanta spinta vitale devi avere per rialzarti da tutto questo? Sarebbe più facile lasciarsi andare… Da queste donne abbiamo tanto da imparare. Tradite, mortificate, brutalizzate riescono ancora ad affidarsi all’altro, per quanto sconosciuto, a non vederci necessariamente un nemico.
Se ci sono riuscite loro, perché noi no?

 

 

 

 
 

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