1. Contenuto della pagina
  2. Menu principale di navigazione
  3. Menu di sezione
 

Contenuto della pagina

Essere donna, essere Rom: sopravvivere in una comunità sessista e marginalizzata

una foto scattata durante l'esperienza presso il campo rom


A cura di Cecilia Montella

Durante un’esperienza come operatrice sociale ho potuto conoscere da vicino la comunità Rom di Via Cupa Perillo di Scampia e gli assetti ideologico – culturali riferiti ai ruoli di genere che circolano tra gli appartenenti alla comunità. Il lavoro svolto mi ha permesso di riflettere sul concetto di intersezionalità, cioè sulla sovrapposizione di più identità sociali che interagiscono a molteplici livelli, spesso simultanei.
La teoria di Crenshaw propone che occorra pensare a ogni elemento o tratto di una persona come inestricabilmente unito a tutti gli altri elementi per poter comprendere completamente la sua identità. Attraverso la mia esperienza ho potuto verificare come tale teoria si traduca nella realtà e possa avere risvolti estremamente dolorosi: essere donna ed essere Rom rappresenta una sovrapposizione che produce oppressioni estreme, poiché si appartiene ad una comunità ai margini, e si è sottomesse all’interno di una cultura fortemente sessista e binaria.
Il rapporto tra etnia e genere è, infatti, particolarmente complesso per le donne Rom sia all’interno della propria comunità sia nei rapporti con l’esterno. Dovendosi confrontare al di fuori della propria comunità di appartenenza con un ambiente estremamente ostile, arrivano ad accettare il ruolo che ad esse viene assegnato dalla propria cultura, percepita come minacciata. La discriminazione a cui sono sottoposte assume dunque una valenza ancora più accentuata e multifattoriale, derivante dalla contemporanea presenza di elementi legati all’etnia di appartenenza e alla discriminazione di genere.
La popolazione Rom di Scampia vive all’interno di un contesto fortemente problematico e degradato. Povertà, mancata scolarizzazione, disperazione e pessime condizioni igienico- sanitarie regnano sovrane tra le persone della comunità e spingono a creare una frattura enorme con gli altri abitanti del quartiere, vittime ugualmente dell’appartenere ad una delle aree più degradate della periferia urbana.La marginalità di questa popolazione è la conseguenza di lunghi processi di segregazione ed esclusione dalla vita sociale e culturale; in tal senso il mancato riconoscimento da parte dello Stato e della cultura predominante ha certamente contribuito ulteriormente all’auto-esclusione della comunità Rom, in questo quartiere come in tanti altri. In un contesto così marginale, in cui integrarsi e aprirsi alle differenze risulta così complesso (sia per la popolazione Rom che per gli abitanti di Scampia), vi è terreno fertile per il consolidarsi di ideologie forti e arcaiche, che si tramandano acriticamente attraverso le generazioni. Tra tutte, l’ideologia sessista risulta fortemente presente e viva: la distinzione tra i ruoli di genere in una comunità così fortemente binaria, risulta netta e decisa e non lascia spazio all’individualità e alle differenze di cui ciascuno è portatore.
Per “ruolo di genere” si intende l’insieme delle norme e delle credenze che socialmente e culturalmente vengono associate al maschile e al femminile. Le discriminazioni basate sui ruoli di genere producono costantemente prevaricazione e violenza nei confronti delle donne che, nella cultura Rom, vivono in una condizione di perenne dipendenza e schiavitù, obbligate al silenzio, alla riservatezza, al rispetto del Padre prima e del Marito poi.
Queste mogli devote vengono socializzate da piccole al rispetto di questi valori, private di ogni desiderio e possibilità di autodeterminazione e spesso vittime precoci di violenza domestica. Le bambine Rom vengono già da molto piccole educate alla cura della casa e dei fratelli minori, solitamente molto numerosi. Fino ad una certa età possono frequentare la scuola o essere libere di girare nel campo e per strada con i pari; al sopraggiungere della pubertà, però,capita spesso che le giovani vengano recluse nelle baracche e costrette ai lavori domestici senza che abbiano contatti con l’esterno. Le ragazzine si mostrano già molto più grandi rispetto alla loro età anagrafica: appaiono come donne capaci di badare ai fratellini spesso neonati, vengono affidate loro mansioni casalinghe anche complesse che svolgono spesso con naturalezza, senso del dovere ma anche con orgoglio. A 12 anni circa cominciano ad indossare le gonne lunghe ed a parlare poco; vengono educate alla riservatezza e si apprezza il loro essere docili, educate, ma anche sveglie e abili. Vengono protette e controllate, soprattutto dai padri e dai fratelli, affinché restino “integre”, cioè vergini e sane fisicamente. Da quest’età in poi le ragazzine possono essere richieste in sposa in cambio di un’offerta economica. I bambini maschi vengono educati al machismo ed alla violenza fin da piccoli; sono spinti ad ostentare un atteggiamento di virilità che si manifesta attraverso la messa in pratica di comportamenti aggressivi e di cura esasperata della propria prestanza fisica. La mascolinità è una pubblica performance: i maschi devono dimostrare di essere veri uomini con il fracasso e la messa in scena della propria virilità. “Lo spettacolo pubblico del machismo diventa così una gara di abilità, che può avere un’escalation dal fracasso al mettersi in mostra, dal mettersi in mostra alla competizione, per sfociare a volte nella violenza” (La Cecla, 2010).
In un campo Rom tutto questo accade quotidianamente: ai bambini si chiede di uccidere gli animali da macellare, di dimostrare costantemente la propria forza fisica durante attività lavorative, spesso illecite, o nel corso di furti e scorribande. Le interazioni e i giochi tra i bambini maschi sono altamente competitivi: vince chi è più forte fisicamente e chi è più grande comanda e diventa il leader. I maschietti non devono occuparsi di faccende domestiche, passano poco tempo in casa e molto di più in strada con i pari; hanno da subito maggiori libertà e vengono precocemente socializzati alla prevaricazione sul femminile che si concretizza in violenza fisica e molestia sessuale nei confronti delle pari o anche delle ragazze più grandi. A circa 15-16 anni le giovani vengono richieste in sposa da una famiglia che ha un figlio per lo più della stessa età. I genitori che hanno intenzione di richiedere la ragazza si recano presso l’abitazione della famiglia di lei e concordano con i futuri consuoceri il valore economico della sposa; tale somma di denaro dovrà essere pagata dalla famiglia del ragazzo alla famiglia di lei. I parametri di valutazione della giovane sono in primis la verginità (una ragazza non vergine ha un valore estremamente basso), in secondo luogo l’integrità fisica, poi la bellezza e il carattere, che deve essere sottomesso ma sveglio per permetterle di essere una moglie allo stesso tempo servizievole e astuta. Non è detto che la trattativa vada necessariamente subito a buon fine: può capitare che entrambe le famiglie prendano del tempo per riflettere, ma, dopo un po’ di giorni, è necessario concordare la cifra o decidere di lasciar perdere. Quasi sempre i ragazzi non vengono interpellati in questa decisione che resta unicamente a carico dei genitori; se infine si raggiunge l’accordo, è possibile che si contragga l’unione tra i due giovani. Il rito del matrimonio cambia a seconda delle specifiche comunità Rom.E’ opportuno precisare che l’unione tra i due giovani non avviene dal punto di vista legale: resta (per la nostra legislazione) un’unione di fatto, anche se, per la comunità Rom, il rito rappresenta ciò che rende ufficiale il matrimonio.
Al campo di Scampia il rituale che viene messo in atto è il seguente: i giovani vengono accompagnati dalle rispettive famiglie in un hotel ad ore, nei pressi del campo; vengono poi introdotti in una stanza insieme alla madre dello sposo, che ha il compito di controllare l’integrità della ragazza. Con un asciugamano bianco, la signora si assicura che la futura nuora non abbia ferite sul corpo e non abbia le mestruazioni, poi le fa indossare una sottana bianca e lascia i giovani da soli. I futuri sposi devono, così, avere un rapporto, mentre le loro famiglie aspettano fuori che si compia questa unione. Dopo, la novella sposa dovrà mostrare alla famiglia del marito la sottana bianca, nella migliore delle ipotesi, macchiata di sangue. L’indumento verrà utilizzato come prova della verginità della ragazza e dell’onestà della sua famiglia e, per questo, sarà mostrato con orgoglio e passato di mano in mano tra tutti i membri delle famiglie d’origine degli sposi. A seguito di questa pratica solitamente viene organizzato un rinfresco nella baracca della sposa e, da quel momento in poi, lei si traferirà a casa del marito per servire lui e la sua famiglia. Ai novelli sposi, ove possibile, verrà riservata una camera da letto nella baracca, con l’auspicio che lei diventi gravida al più presto. Molto spesso accade che la sposa perda completamente i contatti con la sua famiglia d’origine, ma ciò dipende da quello che la sua nuova famiglia le permetterà di fare. Probabilmente le sarà permesso di uscire, ma sempre accompagnata dal marito oppure da altre donne della famiglia (per esempio la cognata o la suocera). Le sue mansioni saranno principalmente domestiche, anche se potrà recarsi al di fuori del campo per mendicare o per fare la spesa per la famiglia. Al di fuori della baracca, però, incontrerà probabilmente altri rifiuti, offese e pregiudizi da parte degli abitanti del quartiere e difficilmente riuscirà a trovare un posto sicuro, una dimensione in cui essere se stessa. Il lavoro svolto al campo mi ha permesso di comprendere meglio cosa significhi essere una donna nella comunità Rom.
Ho avuto modo di interrogarmi rispetto a cosa voglia dire vivere, soggetta al volere degli altri dalla nascita alla morte, intrappolata in una gabbia di aspettative ferree legate al proprio ruolo di genere e alla propria identità etnica. L’incontro con le donne mi ha fatto conoscere il dolore dell’impotenza dovuto ad uno stigma multiplo ed atroce, che non permette di avere un riconoscimento positivo sia nella società in senso più ampio (in quanto Rom), che nella propria comunità (in quanto donna).
La “stigmatizzazione”(Goffman,1963) è il fenomeno sociale che attribuisce una connotazione negativa a un membro (o a un gruppo) della comunità in modo da declassarlo a un livello inferiore; nel caso delle donne Rom essa avviene a livelli multipli, attivando un processo che annulla l’individualità, il desiderio e le possibilità di coloro che ne sono vittima. Le appartenenti alla comunità Rom sono costrette a confrontarsi con rifiuti e negazioni su più fronti; di conseguenza le possibilità di trovare attorno a sé risorse che possano fornire un rispecchiamento positivo ed eventualmente un supporto adeguato sono ridotte al minimo. L’ignoranza e la disperazione rafforzano il doppio stigma, e a sua volta quest’ultimo rinvigorisce la distanza, l’esclusione e la ghettizzazione, seguendo un movimento che si autoalimenta e che è difficile da interrompere. Risulta pertanto necessario tener conto dei plurimi livelli attraverso cui le discriminazioni agiscono, sia quando si svolgono interventi rivolti a persone vittime di stigma multipli, sia semplicemente nel momento in cui ci si avvicina ad esse, affinché non si perpetuino atteggiamenti o pratiche che rafforzino il pregiudizio ad uno dei livelli e si consideri l’inclusione sociale come un processo complesso, da avviare e declinare in più direzioni.

 

 

 

 
 

© 2013 - bullismoomofobico.it