A cura di Cecilia Montella
Durante un’esperienza come
operatrice sociale ho potuto conoscere da vicino la comunità Rom di Via Cupa Perillo
di Scampia e gli assetti ideologico – culturali riferiti ai ruoli di genere che
circolano tra gli appartenenti alla comunità. Il lavoro svolto mi ha permesso
di riflettere sul concetto di intersezionalità, cioè sulla sovrapposizione di
più identità sociali che interagiscono a molteplici livelli, spesso simultanei.
La
teoria di Crenshaw propone che occorra pensare a ogni elemento o tratto di una
persona come inestricabilmente unito a tutti gli altri elementi per poter
comprendere completamente la sua identità. Attraverso la mia esperienza ho
potuto verificare come tale teoria si traduca nella realtà e possa avere
risvolti estremamente dolorosi: essere donna ed essere Rom rappresenta una sovrapposizione
che produce oppressioni estreme, poiché si appartiene ad una comunità ai
margini, e si è sottomesse all’interno di una cultura fortemente sessista e
binaria.
Il rapporto tra etnia e genere è, infatti, particolarmente complesso
per le donne Rom sia all’interno della propria comunità sia nei rapporti con
l’esterno. Dovendosi confrontare al di fuori della propria comunità di
appartenenza con un ambiente estremamente ostile, arrivano ad accettare il
ruolo che ad esse viene assegnato dalla propria cultura, percepita come
minacciata. La discriminazione a cui sono sottoposte assume dunque una valenza
ancora più accentuata e multifattoriale, derivante dalla contemporanea presenza
di elementi legati all’etnia di appartenenza e alla discriminazione di genere.
La popolazione Rom di Scampia vive
all’interno di un contesto fortemente problematico e degradato. Povertà, mancata
scolarizzazione, disperazione e pessime condizioni igienico- sanitarie regnano
sovrane tra le persone della comunità e spingono a creare una frattura enorme
con gli altri abitanti del quartiere, vittime ugualmente dell’appartenere ad una
delle aree più degradate della periferia urbana.La marginalità di questa
popolazione è la conseguenza di lunghi processi di segregazione ed esclusione dalla
vita sociale e culturale; in tal senso il mancato riconoscimento da parte dello
Stato e della cultura predominante ha certamente contribuito ulteriormente all’auto-esclusione
della comunità Rom, in questo quartiere come in tanti altri.
In un contesto così marginale, in
cui integrarsi e aprirsi alle differenze risulta così complesso (sia per la popolazione
Rom che per gli abitanti di Scampia), vi è terreno fertile per il consolidarsi
di ideologie forti e arcaiche, che si tramandano acriticamente attraverso le
generazioni. Tra tutte, l’ideologia sessista risulta fortemente presente e
viva: la distinzione tra i ruoli di genere in una comunità così fortemente
binaria, risulta netta e decisa e non lascia spazio all’individualità e alle
differenze di cui ciascuno è portatore.
Per “ruolo di genere” si intende
l’insieme delle norme e delle credenze che socialmente e culturalmente vengono
associate al maschile e al femminile. Le discriminazioni basate sui ruoli di genere
producono costantemente prevaricazione e violenza nei confronti delle donne che,
nella cultura Rom, vivono in una condizione di perenne dipendenza e schiavitù,
obbligate al silenzio, alla riservatezza, al rispetto del Padre prima e del
Marito poi.
Queste mogli devote vengono socializzate da piccole al rispetto di
questi valori, private di ogni desiderio e possibilità di autodeterminazione e
spesso vittime precoci di violenza domestica.
Le bambine Rom vengono già da
molto piccole educate alla cura della casa e dei fratelli minori, solitamente
molto numerosi. Fino ad una certa età possono frequentare la scuola o essere
libere di girare nel campo e per strada con i pari; al sopraggiungere della
pubertà, però,capita spesso che le giovani vengano recluse nelle baracche e
costrette ai lavori domestici senza che abbiano contatti con l’esterno. Le
ragazzine si mostrano già molto più grandi rispetto alla loro età anagrafica:
appaiono come donne capaci di badare ai fratellini spesso neonati, vengono
affidate loro mansioni casalinghe anche complesse che svolgono spesso con
naturalezza, senso del dovere ma anche con orgoglio.
A 12 anni circa cominciano ad
indossare le gonne lunghe ed a parlare poco; vengono educate alla riservatezza
e si apprezza il loro essere docili, educate, ma anche sveglie e abili. Vengono
protette e controllate, soprattutto dai padri e dai fratelli, affinché restino
“integre”, cioè vergini e sane fisicamente. Da quest’età in poi le ragazzine possono
essere richieste in sposa in cambio di un’offerta economica.
I bambini maschi vengono educati
al machismo ed alla violenza fin da piccoli; sono spinti ad ostentare un atteggiamento
di virilità che si manifesta attraverso la messa in pratica di comportamenti
aggressivi e di cura esasperata della propria prestanza fisica. La mascolinità
è una pubblica performance: i maschi devono dimostrare di essere veri uomini
con il fracasso e la messa in scena della propria virilità. “Lo spettacolo
pubblico del machismo diventa così una gara di abilità, che può avere
un’escalation dal fracasso al mettersi in mostra, dal mettersi in mostra alla
competizione, per sfociare a volte nella violenza” (La Cecla, 2010).
In un
campo Rom tutto questo accade quotidianamente: ai bambini si chiede di uccidere
gli animali da macellare, di dimostrare costantemente la propria forza fisica
durante attività lavorative, spesso illecite, o nel corso di furti e scorribande.
Le interazioni e i giochi tra i bambini maschi sono altamente competitivi:
vince chi è più forte fisicamente e chi è più grande comanda e diventa il
leader. I maschietti non devono occuparsi di faccende domestiche, passano poco
tempo in casa e molto di più in strada con i pari; hanno da subito maggiori
libertà e vengono precocemente socializzati alla prevaricazione sul femminile
che si concretizza in violenza fisica e molestia sessuale nei confronti delle
pari o anche delle ragazze più grandi.
A circa 15-16 anni le giovani
vengono richieste in sposa da una famiglia che ha un figlio per lo più della
stessa età. I genitori che hanno intenzione di richiedere la ragazza si recano
presso l’abitazione della famiglia di lei e concordano con i futuri consuoceri
il valore economico della sposa; tale somma di denaro dovrà essere pagata dalla
famiglia del ragazzo alla famiglia di lei. I parametri di valutazione della
giovane sono in primis la verginità (una ragazza non vergine ha un valore
estremamente basso), in secondo luogo l’integrità fisica, poi la bellezza e il
carattere, che deve essere sottomesso ma sveglio per permetterle di essere una
moglie allo stesso tempo servizievole e astuta.
Non è detto che la trattativa
vada necessariamente subito a buon fine: può capitare che entrambe le famiglie
prendano del tempo per riflettere, ma, dopo un po’ di giorni, è necessario
concordare la cifra o decidere di lasciar perdere. Quasi sempre i ragazzi non
vengono interpellati in questa decisione che resta unicamente a carico dei
genitori; se infine si raggiunge l’accordo, è possibile che si contragga
l’unione tra i due giovani.
Il rito del matrimonio cambia a
seconda delle specifiche comunità Rom.E’ opportuno precisare che l’unione tra i
due giovani non avviene dal punto di vista legale: resta (per la nostra
legislazione) un’unione di fatto, anche se, per la comunità Rom, il rito
rappresenta ciò che rende ufficiale il matrimonio.
Al campo di Scampia il rituale
che viene messo in atto è il seguente: i giovani vengono accompagnati dalle
rispettive famiglie in un hotel ad ore, nei pressi del campo; vengono poi
introdotti in una stanza insieme alla madre dello sposo, che ha il compito di
controllare l’integrità della ragazza. Con un asciugamano bianco, la signora si
assicura che la futura nuora non abbia ferite sul corpo e non abbia le
mestruazioni, poi le fa indossare una sottana bianca e lascia i giovani da
soli. I futuri sposi devono, così, avere un rapporto, mentre le loro famiglie
aspettano fuori che si compia questa unione. Dopo, la novella sposa dovrà
mostrare alla famiglia del marito la sottana bianca, nella migliore delle
ipotesi, macchiata di sangue. L’indumento verrà utilizzato come prova della
verginità della ragazza e dell’onestà della sua famiglia e, per questo, sarà
mostrato con orgoglio e passato di mano in mano tra tutti i membri delle
famiglie d’origine degli sposi. A seguito di questa pratica solitamente viene
organizzato un rinfresco nella baracca della sposa e, da quel momento in poi,
lei si traferirà a casa del marito per servire lui e la sua famiglia. Ai
novelli sposi, ove possibile, verrà riservata una camera da letto nella
baracca, con l’auspicio che lei diventi gravida al più presto.
Molto spesso accade che la sposa
perda completamente i contatti con la sua famiglia d’origine, ma ciò dipende da
quello che la sua nuova famiglia le permetterà di fare. Probabilmente le sarà
permesso di uscire, ma sempre accompagnata dal marito oppure da altre donne
della famiglia (per esempio la cognata o la suocera). Le sue mansioni saranno
principalmente domestiche, anche se potrà recarsi al di fuori del campo per
mendicare o per fare la spesa per la famiglia. Al di fuori della baracca, però,
incontrerà probabilmente altri rifiuti, offese e pregiudizi da parte degli
abitanti del quartiere e difficilmente riuscirà a trovare un posto sicuro, una
dimensione in cui essere se stessa.
Il lavoro svolto al campo mi ha
permesso di comprendere meglio cosa significhi essere una donna nella comunità
Rom.
Ho avuto modo di interrogarmi rispetto a cosa voglia dire vivere, soggetta
al volere degli altri dalla nascita alla morte, intrappolata in una gabbia di
aspettative ferree legate al proprio ruolo di genere e alla propria identità
etnica. L’incontro con le donne mi ha fatto conoscere il dolore dell’impotenza
dovuto ad uno stigma multiplo ed atroce, che non permette di avere un
riconoscimento positivo sia nella società in senso più ampio (in quanto Rom),
che nella propria comunità (in quanto donna).
La “stigmatizzazione”(Goffman,1963)
è il fenomeno sociale che attribuisce una connotazione negativa a un membro (o
a un gruppo) della comunità in modo da declassarlo a un livello inferiore; nel
caso delle donne Rom essa avviene a livelli multipli, attivando un processo che
annulla l’individualità, il desiderio e le possibilità di coloro che ne sono
vittima. Le appartenenti alla comunità Rom sono costrette a confrontarsi con
rifiuti e negazioni su più fronti; di conseguenza le possibilità di trovare
attorno a sé risorse che possano fornire un rispecchiamento positivo ed
eventualmente un supporto adeguato sono ridotte al minimo. L’ignoranza e la
disperazione rafforzano il doppio stigma, e a sua volta quest’ultimo rinvigorisce
la distanza, l’esclusione e la ghettizzazione, seguendo un movimento che si
autoalimenta e che è difficile da interrompere. Risulta pertanto necessario
tener conto dei plurimi livelli attraverso cui le discriminazioni agiscono, sia
quando si svolgono interventi rivolti a persone vittime di stigma multipli, sia
semplicemente nel momento in cui ci si avvicina ad esse, affinché non si
perpetuino atteggiamenti o pratiche che rafforzino il pregiudizio ad uno dei
livelli e si consideri l’inclusione sociale come un processo complesso, da
avviare e declinare in più direzioni.