A cura di Arianna D’Isanto.
Tra le 380 aziende incluse nell'edizione 2021 del
Bloomberg Gender-Equality Index (GEI), sono diciassette le società italiane
insignite del riconoscimento. Questo dato colloca l'Italia nei primi quattro
Paesi a livello mondiale.
L’indice misura le performance delle società impegnate
sia per la trasparenza nella divulgazione sui dati di genere, sia per le misure
adottate nell'ottica dell'inclusione e della valorizzazione delle differenze e comprende
complessivamente aziende di 44 Paesi impiegate in undici diversi settori (al
seguente link è possibile consultare l’elenco completo https://assets.bbhub.io/company/sites/46/2021/01/GEI2021_MemberList_FNL.pdf )
In media, nelle 380 società ci sono 3 donne nei
consigli di amministrazione (quota rosa al 29%) e sono soltanto 23 le compagnie
che hanno una CEO o equivalente.
In Italia, la legge
76/2016 (c.d. Legge Cirinnà) ha introdotto l’istituto dell’unione civile,
prevedendo il riconoscimento giuridico della coppia formata da persone dello
stesso sesso con riflessi anche nella sfera lavorativa. L’adeguamento da parte
dei datori di lavoro alla normativa comprende, fra l’altro: il congedo
equiparabile a quello previsto in caso di matrimonio; l’obbligo di estensione
alle parti dell’unione civile dei congedi e permessi previsti dalla
legislazione e dalla contrattazione collettiva per determinate esigenze
familiari di assistenza (es. permesso mensile retribuito per assistere il
partner con handicap in situazione di gravità accertata L. 104/1992); l’obbligo
di estensione dei regimi di welfare, introdotti tramite accordi collettivi
aziendali, riguardanti agevolazioni (aggiuntive rispetto alla contrattazione
collettiva) in tema di istruzione, ricreazione, assistenza sociale o sanitaria,
alla flessibilità dell’orario di lavoro, allo smart working, all’uso dell’autovettura aziendale estesa al partner.
Mentre tutte le imprese sono state chiamate a recepire
le disposizioni stabilite dalla legge, in otto casi su dieci le aziende non
hanno adottato ulteriori misure, non obbligatorie, di Diversity Management, quali la formalizzazione dell’adesione
dell’impresa ai principi di non discriminazione e inclusione dei lavoratori
LGBT+ in uno o più documenti interni, la presenza di una figura professionale
e/o di un’unità organizzativa che si occupa delle valorizzazione delle
differenze, e il sostegno a un gruppo interno che si occupa di lavorator* LGBT+.
Altra carenza è rappresenta dal ridotto se non assente
coinvolgimento delle imprese in iniziative sui temi LGBT+ rivolte all’esterno:
solo l’1,8% del totale ha, infatti, realizzato nel triennio 2016-2019 almeno
un’iniziativa di questo tipo.
Un’ ulteriore indagine interessante fa emergere una
discrepanza territoriale: il DM è infatti più diffuso nel Nord del Paese, dove
il 37,8% adotta almeno una misura. Seguono le imprese del Centro (29,3%) e del
Mezzogiorno (20,2%).
Quanto
detto, in aggiunta al milione e mezzo di denunce per mobbing registrato nel nostro Paese, fa comprendere che le politiche
di pari opportunità e di Diversity Management
negli ambienti di lavoro siano necessari ma non sufficienti a generare un
cambiamento completo. Tutte le azioni intraprese dalle imprese sono auspicabili
quando non si risolvano solo in una formalizzazione di principi ma riescano ad
agire un impatto trasformativo sul substrato culturale alla base del clima
aziendale attraverso sempre più interventi di formazione e sensibilizzazione e un sinergico lavoro di rete tra le
istituzioni pubbliche.
Tali pratiche, se agite
costantemente e consapevolmente, favorirebbero il superamento di molte barriere
nella fase d’ingresso nel lavoro e un importante intervento nel miglioramento
del clima aziendale.