A cura di Viviana Altea Indolfi
«L’omofobia e la transfobia
sono violazioni della dignità umana. Gli atteggiamenti omofobici e transfobici
sono incompatibili con i valori e i principi su cui si fonda l’Unione europea –
come previsto dall’articolo 2 del trattato».
Commissione europea (2013)
La comunità trans, come
tutti i gruppi minoritari (minoranze sessuali e di genere), possiede numerose risorse,
in termini di fattori di protezione e resilienza, grazie alle connessioni e
alle reti create per fornire supporto ai propri membri. Tali gruppi si
avvalgono spesso, oltre che all’esperienza e alla forza di volontà di ogni
singolo, di figure professionali formatesi per portare le istanze delle persone
LGBT all’attenzione del contesto sociale esteso. Pensiamo, ad esempio, alle
reti di avvocatura per la promozione dei diritti della comunità, troppo spesso
osteggiata da un atteggiamento cieco e sordo delle istituzioni che dovrebbero,
invece, supportare le realtà cosiddette “differenti”, al fine di ridurre
l’impatto dello stigma attuato, a livello del singolo, o su scala più ampia.
Da quando sono state
depatologizzate l’omosessualità e lo status dell’essere transgender, ben poco
si è fatto per favorire la connessione e l’integrazione sociale delle persone
lesbiche, gay, bisessuali e transessuali, se si escludono alcuni specifici
contesti.
Se gettiamo uno sguardo
ampio, l’Unione Europea si impegna a tener conto di quelli che sono i reati a
sfondo transfobico, tutelando l’identità della persona colpita (l’articolo 21
della direttiva sui diritti delle vittime nell’UE) e a garantire che le
autorità preposte all’applicazione della legge siano formate per affrontare
efficacemente i reati transfobici, anche con la partecipazione a programmi di
sensibilizzazione sui problemi delle persone trans.
Il diritto ai migliori standard
sanitari possibili é garantito da numerosi trattati, tra cui il Patto
Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali e la Carta Sociale
Europea. Tuttavia, molte persone transgender hanno notevoli problemi nel
raggiungere questi standard. Essendo, infatti, lo stigma istituzionale il più
delle volte preponderante nella cancellazione delle realtà “fuori norma”,
accade spesso che siano gli stessi professionisti della salute ad attuare un
processo di stigmatizzazione delle persone transgender nel momento in cui
richiedono un consulto medico. La risposta alla domanda di medicalizzazione passa
per l’attribuzione della causa di un problema fisico, di qualsivoglia natura,
allo status di persona transgender.
Tra le strategie integrative
messe a punto, tenendo conto dello stato dell’arte degli organismi di
promozione del benessere, ne esistono alcune che riducono effettivamente
l’impatto delle conseguenze negative dell’essere esposti ad uno stigma individuale,
sociale ed istituzionale. Una di queste è sicuramente quella della “carriera
alias” all’Università.
Tale dispositivo, messo a
punto da numerose Università italiane, consente alle persone che esperiscono
una non conformità di genere, di portare avanti la propria carriera
universitaria utilizzando il nome elettivo, fornendo loro un doppio libretto e
una doppia tessera universitaria. Accorgimenti di questo tipo, oltre a favorire
all’interno del contesto universitario un clima maggiormente inclusivo,
permettendo alle persone trans di avere una vita sociale ed accademica e di
sperimentare l’identità percepita in un contesto come quello dell’Università,
abbassa i livelli di stress nel momento in cui lo studente è tenuto a
rispondere ad un appello, o a presentare dei documenti in pubblico, laddove è
evidente, a seguito dell’inizio del percorso di transizione, un’incongruenza
tra il nome e l’aspetto estetico.
La prima Università italiana
ad adottare la carriera Alias è stata l’Università degli Studi di Torino nel
2003, seguita dal Politecnico della stessa città e dall’Università di
Bologna. In seguito gli atenei di Firenze,
Messina, Padova, Bari, Milano, Bergamo, Verona, Urbino, Napoli, tutti gli
atenei di Roma, Salerno, Pisa, Perugia, Ferrara, l’Università di Venezia.
Anche in ambito medico da
qualche anno vengono messi a punto degli interventi di formazione, in collaborazione
con le Università, per il trattamento di pazienti LGBT, al fine di
sensibilizzare i professionisti ad un corretto approccio nel trattamento di
queste persone e rendere più efficaci le cure e maggiormente accurate le
diagnosi.
Direttamente connessa alla
possibilità di un’autonomia economica, per il proseguimento del percorso di
transizione (si pensi all’importanza di avere un’assicurazione sanitaria), è il
diritto al lavoro. Questo tema è particolarmente saliente, ma ancora non
normato. La maggior parte delle persone transgender non riesce a trovare un
lavoro a causa dei pregiudizi sulla possibilità di associarsi ad un’immagine scomoda
da parte dei datori di lavoro, mentre coloro che ne hanno uno, riferiscono di
subire molestie e discriminazioni, legate anche alle norme sull’utilizzo dei
bagni e sul codice di vestiario da rispettare (entrambi i fattori, il più delle
volte, devono essere corrispondenti all’identità presentata sui documenti
ufficiali del lavoratore).
Se si guarda, invece, al
contesto della salute mentale delle persone T, esistono linee guida e standard
di cura che i tutti i professionisti sono tenuti a rispettare, nell’adesione al
proprio codice deontologico.
La World Professional
Association for Transgender Health (WPATH), associazione internazionale che dal
1979 si occupa di sensibilizzare e reclutare professionisti della salute
interessati al lavoro con le persone transgender, ha messo a punto delle linee
guida chiamati Standard di Cura o SOC (Standards Of Care), al fine di divulgare
e migliorare gli standard più elevati di assistenza sanitaria. Questo lavoro
potenzia la presa in carico e le cure rivolte alle persone transessuali,
transgender e gender non conforming, al fine di migliorarne il benessere
psicologico e la qualità di vita.
Il lavoro psicologico
descritto degli Standards of Care deve:
1) Esplorare l’identità, il ruolo e l’espressione di genere;
2) Affrontare l’impatto negativo della disforia di genere e
dello stigma sulla salute mentale;
3) Alleviare la transfobia interiorizzata
4) Potenziare il supporto sociale e dei pari;
5) Migliorare l’immagine del corpo;
6) Promuovere resilienza.
Le strade per il supporto
alla salute psicofisica delle persone trans esistono, ma il percorso è ancora
lungo, in quanto hanno bisogno di una più sistematica messa a punto, sostenuta
dalle istituzioni e dall’intero tessuto societario.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
https://transrespect.org/wp-content/uploads/2015/08/Hberg-Ital
Being Trans in the European Union Comparative
analysis of EU LGBT survey data, December 2014
Essere
trans nell’UE, Analisi comparativa dei dati del sondaggio LGBT dell’UE, a
cura di European Union Agency for Fundamental Rights, FRA
http://www.abbanews.eu/diritti-e-costumi/alias-carriera-doppio-libretto/
·
World
Professional Association for Transgender Health, Standards of Care for the
Health of Transsexual, Transgender, and Gender Nonconforming People (7th
version), Minneapolis, MN; www.wpath.org, 2011