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Inclusione e sport: Buone Prassi e “buon incontro”

Immagine di un ciclista rainbow (fatto di tanti colori)


A cura di Camilla Esposito  

Negli ultimi anni le barriere relative alle discriminazioni basate su etnia, religione, disabilità si sono sicuramente indebolite; si conservano, invece, ancora molto resistenti quelle relative al genere e all'orientamento sessuale, oggetto di discriminazioni e stigmatizzazione in numerosi contesti di vita dell'individuo. Uno dei contesti in cui una cultura eteronormativa, dunque reiterante le suddette forme di stigmatizzazione, agisce di più è rappresentato dallo sport. Di recente Gill e Kamphoff (2010) lo hanno definito come sex-segregated e male-dominated.
Nello sport, come meno recentemente aveva già dimostrato Messner (1992), una cultura fortemente eteronormativa e segregante, impedisce a tutto ciò che non è stereotipicamente virile di esprimersi. Da ciò deriva la costruzione identitaria del maschio in opposizione a ciò che è femminile e femminilizzato, ma anche quella distinzione tra sport da maschi e sport da femmine. È stato rilevato come sia la stessa organizzazione della pratica sportiva a riprodurre e rispecchiare, attraverso prassi e regole di gioco, il pregiudizio sessista e la cultura eteonormativa presente nelle nostre società. Soprattutto la sex-segregation rappresenta un terreno fertile per la perpetuazione del pregiudizio sessista nello sport. Tale “segregazione” è sia causa che effetto del pregiudizio.
La sex-segregation è naturalmente osservata nel corso dello sviluppo: i bambini preferiscono giocare con altri bambini, mentre le bambine preferiscono farlo con altre bambine. Questo fenomeno, che accompagna lo sviluppo dell'identità sessuale degli individui, in alcuni casi può evolvere a sostegno di culture e pregiudizi sessisti. L'effettiva mancanza di contatto tra i membri di in-group e out-group, tra noi e loro, lascia inalterati i preconcetti e i pregiudizi, che possono essere nati più o meno spontaneamente. Ancor più quando tale “segregazione” è indotta, sostenuta e istituzionalizzata dalle leggi, o dalle regole di uno sport.
Prendendo a prestito l'“ipotesi del contatto” di Allport (1973), ossia l'idea che il miglior strumento di contrasto e prevenzione di fenomeni di pregiudizio e stereotipi sia dato dal contatto, dalla conoscenza, dall'interazione tra differenti individui, possiamo certamente dire che la regola sportiva che tiene separati maschi e femmine evidentemente rafforza il pregiudizio e la segregazione stessa poiché non consente un “buon incontro”, come lo definirebbe Allport. Pensiamo, dunque, che proprio il contatto potrebbe rappresentare una delle Buone Prassi per la promozione dell'inclusione all'interno dei contesti sportivi. Secondo l'autore ci sono alcune principali condizioni da assicurare perché l'incontro diventi realmente un “buon incontro”.
Prima di tutto il contatto non dev'essere fortuito ed isolato, ma offrire un'ampia opportunità di conoscenza dell'altro. Quando l'incontro è fugace, infatti, si è portati a notare ed evidenziare dell'altro quegli aspetti e quelle informazioni che confermano il nostro pregiudizio.
La seconda condizione necessaria è rappresentata dal contesto, dalla cornice in cui si realizza il contatto: è importante, infatti, che siano le istituzioni stesse, gli enti, gli allenatori e gli educatori a sostenere attivamente e a vario titolo le interazioni. Ecco perché, di conseguenza, nonché in origine, potrebbe essere particolarmente utile e necessario un lavoro di informazione e sensibilizzazione di tutti quegli attori che entrano in contatto con allievi e atleti: allenatori, dirigenti sportivi, docenti di educazione fisica. È inoltre auspicabile ottenere che l'interazione avvenga tra individui che si percepiscono come paritetici, che condividano uno stesso status.
Ovviamente questo è necessario dal momento che il pregiudizio nei confronti dell'out-group generalmente implica la credenza di una presunta inferiorità di quest'ultimo: una disparità di status o di capacità nell'esecuzione di un compito sarebbe probabilmente destinato a rafforzare tale credenza. Infine, altro fondamentale aspetto di promozione dell'inclusione è quello cooperativo, goal-oriented, diretto verso obiettivi comuni. Insomma, la pratica sportiva sembra essere terreno assolutamente favorevole ad un “buon incontro”: lo sport necessita di una attività continuativa e durevole, che offre la possibilità di approfondire la conoscenza con gli altri; la pratica sportiva si realizza sempre all'interno di una cornice istituzionale; è chiaramente garantita una interazione cooperativa goal-oriented, soprattutto negli sport di squadra.
Tutti questi presupporti teorici sono alla base di qualcosa di concreto, che si può realmente realizzare ed è stato realmente realizzato.
Alcuni esempi di come lo sport possa diventare un reale luogo di inclusione sono le Buone Prassi proposte dalla UISP, quali: la riduzione dei gender pay gap tra atleti di sesso diverso e forme di tutela ai fini di una paritaria contrattualizzazione; rimodulare le regole dello sport, cercando di coinvolgere i partecipanti stessi nella creazione di nuove regole, più flessibili e meno esclusive; promuovere un'idea di sport meno incentrata sul risultato e sulla premiazione, soprattutto per i più piccoli; promuovere attività mista, in particolare negli sport di squadra (come calcio e pallavolo); esperienza come quella dei “Mondiali Antirazzisti”.    

Bibliografia:  
 - AllPort G.W., La natura del pregiudizio, ed. it. a cura di M. Chiarenza, Firenze, 1973.  
 - Gill D.G., KamPhoff C.S., Gender in sport and exercise psychology, in Chrisler J.C., McCreary D.R.(A cura di), Handbook of Gender Research in Psychology. Volume 2: Gender Research in Social and Applied Psychology, Springer New York Dordrecht Heidelberg London, 2010, 563.  
 - Messner M., Power at play: Sports and the problem of masculinity, Boston, 1992

 

 

 

 
 

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