A cura di Alessia Cuccurullo e Camilla Esposito
Differenti
sono gli argomenti di studio e le riflessioni che si aprono nell'ambito
dell'attuale Psicologia Clinica. I temi legati alle differenze, le
discriminazioni connesse agli stereotipi, le molteplici e nuove forme di
genitorialità, gli interventi nelle scuole sono solo alcune delle più recenti
prospettive di indagine che il mondo della psicologia è invitato ad esplorare.
Abbiamo
chiesto ad Alessandro Taurino, Ricercatore Universitario Confermato in
Psicologia clinica dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro, di provare ad
esplorare insieme alcuni di questi temi, a partire dalla sua esperienza e dal
lavoro che quotidianamente porta avanti.
Quali sono i temi di
ricerca di cui si sta occupando in questo momento?
Attualmente,
i miei interessi di studio e ricerca-intervento sono molteplici. Nell'ambito
del mio settore scientifico-disciplinare (la psicologia clinica) mi occupo degli
aspetti correlati alla valutazione diagnostica, con uno specifico focus sulla psicodiagnosi
e sulla valutazione clinica dell'individuo, delle famiglie e delle
genitorialità. Tuttavia credo sia importantissimo evidenziare il fatto che la
Psicologia clinica non debba essere vista solo ed esclusivamente come una
disciplina che si occupa della psicopatologia, del disturbo, del malessere
individuale ed intersoggettivo, quanto più che altro come un'area di studio, dal
forte volare applicativo, volta alla promozione del benessere
bio-psico-sociale. Per questo motivo a mio avviso la psicologia clinica deve
focalizzare l'attenzione sulla valorizzazione di interventi e contesti che
abbiano questo specifico obiettivo. Ed è su questo piano che si colloca il mio
interesse per le questioni inerenti l'orientamento sessuale e l'identità di
genere, ossia il mio lavoro non solo di
ricerca, ma anche di formazione clinico-dinamica nei diversi contesti
scolastici ed istituzionali, per il
superamento degli stereotipi e dei pregiudizi omotransfobici e delle diverse
forme di violenza. Per lo stesso motivo mi occupo dello studio di costrutti e
modelli in grado di cogliere la complessità e la pluralità delle attuali configurazioni
familiari e genitoriali, con specifico rimando al tema della genitorialità
omosessuale. A tal proposito, uno dei miei principali ambiti di ricerca è
l'analisi dei modelli culturali e delle rappresentazioni sociali
dell'omogenitorialità, esplorando in modo peculiare le correlazioni tra
l'atteggiamento nei confronti delle competenze omogenitoriali e costrutti quali
l'omofobia istituzionalizzata, la giustificazione del sistema e il
conservatorismo sociale, e per quanto riguarda le persone omosessuali, l'omofobia
o lo stigma interiorizzato.
Dai molteplici
interessi di studio che ha descritto sembrerebbe emergere una forte connessione
tra la Psicologia clinica e l'attualità. È così?
Esattamente.
Credo che il ruolo fondamentale della Psicologia clinica sia proprio quello di accogliere
le istanze della contemporaneità, di offrire modelli di lettura ed analisi in
grado di interpretare la complessità dei nostri tempi, le diverse configurazioni
identitarie, comprendendo i significati di un contesto socio-culturale come
quello che stiamo vivendo che è sottoposto a continui processi di cambiamento e
trasformazione e promuovendo soprattutto il benessere delle persone, attraverso
la valorizzazione di una cultura delle differenze che parta dalla profonda destrutturazione
dei processi di discriminazione, di stigmatizzazione, di deumanizzazione e di
esclusione nei diversi contesti di vita.
Lei si occupa
principalmente di genitorialità e omogenitorialità: come questo tema può
inserirsi nei contesti scolastici e in un lavoro di prevenzione degli
stereotipi?
In
questo periodo sto conducendo un progetto di ricerca e formazione molto
interessante che coinvolge le educatrici dei nidi e le insegnanti della scuola
dell'infanzia del Comune di Bari, lavorando sulla decostruzione di stereotipi e
pregiudizi omotransfobici. Attualmente, a mio avviso, è imprescindibile svolgere
questo tipo di attività nei diversi ordini e gradi delle scuole. Rispetto al tema
della genitorialità e della famiglia, oggi la nostra contingenza sociale e
culturale ci mette nelle condizioni di approcciare una pluralità di modelli
familiari. La realtà delle famiglie omogenitoriali, per esempio, è in netta
crescita, per cui in tutte le scuole è possibile che ci siano bambine e bambini
che vivono con i loro genitori omosessuali. Per questo le/gli insegnanti devono
essere pronte/i a gestire i processi di "inclusione" e di educazione alle
differenze, per dare le giuste risposte a tutte quelle domande che potrebbero emergere
nelle classi rispetto alle differenti forme o ai "nuovi" modelli di famiglia e
genitorialità. Basta guardarsi intorno: la nostra realtà è costituita da famiglie
post-separazione, allargate, ricomposte, ricostituite, miste dal punto di vista
etnico, famiglie omogenitoriali; è di fondamentale importanza, pertanto, che
gli/le insegnanti si dotino di strumenti e metodologie didattico-educative e
formative che possano consentire ai bambini e alle bambine di guardare alla
loro realtà, fatta di pluralità e differenze, superando eventuali pregiudizi.
Da questo punto di vista lavoro molto nelle scuole per l'educazione alle
differenze familiari e genitoriali, così come quelle legate all'identità di
genere e agli orientamenti sessuali. Quindi credo che questi temi si intreccino
perfettamente con la scuola, perché riguardano l'assunzione di approcci più
inclusivi e pluralisti per contrare processi di discriminazione e per prevenire
gli effetti deleteri e violenti insiti nella reiterazione di stereotipi e
meccanismi di stigmatizzazione.
Sente che c'è una
risposta da parte delle insegnanti e degli insegnanti? Nota un interesse a
comprendere quelle che sono le differenze e quindi un'apertura in questo senso?
Assolutamente
sì! Nella mia esperienza formativa nei contesti scolastici sto incontrando
tantissima disponibilità al confronto e alla condivisione. Tutto questo è
dovuto certamente alla attuale complessità del lavoro educativo. Le/gli
insegnanti si rendono conto che hanno bisogno di nuovi strumenti, di nuove
metodologie; ma soprattutto hanno bisogno di lavorare su quelli che sono i
propri modelli interiorizzati, per poter svolgere in modo efficace e competente
i processi di educazione alle differenze con cui continuamente impattano
rispetto alle esperienze di vita di bambine e bambine, ragazzi e ragazze.
Io
credo in una formazione che lavori molto sugli aspetti dinamici. La metodologia
che utilizzo (e rispetto alla quale sto incontrando molta apertura) è
fondamentalmente quella di supportare gli educatori e le educatrici, le
insegnanti e gli insegnanti, ad attraversare i propri modelli interiorizzati di
identità di genere, di orientamento sessuale, di famiglia, di genitorialità, per
poter integrare nel proprio scenario mentale ed emotivo-affettivo le realtà
dell'Altro da sè, contenendo e gestendo eventuali processi di generalizzazione
o di proiezione, sulla base dei quali si tende a proiettare il proprio modello
interiorizzato come se fosse l'unico possibile e legittimo. In questo momento
in cui la realtà si sta sempre più complessificando e pluralizzando, il lavoro
dinamico sui propri sistemi di rappresentazione aiuta moltissimo su molteplici
livelli; uno di questi è anche l'acquisizione di consapevolezze circa i propri
pregiudizi, con lo scopo di evitare una loro interferenza nella relazione educativa;
aspetto, questo, imprescindibile relativamente alla deontologia dell'insegnante.
E mi rendo conto che il grande obiettivo che raggiungiamo nelle formazioni è
quello di riuscire a condividere uno spazio simbolico di co-costruzione ed interiorizzazione
di nuovi approcci e nuovi sguardi sulla realtà, soprattutto attraverso la messa
in discussione di modelli unici e monolitici che non sono più in grado di
comprendere i vissuti profondi di
ognuno/a di noi.
Si tratta di un lavoro
abbastanza complesso: lavorare con quelle che sono le proprie rappresentazioni,
le proprie idee, i propri stereotipi. All'inizio forse c'è un po' di
difficoltà, però quando ci si sperimenta in prima persona, non a livello teorico,
razionale, ma emotivamente...
Assolutamente!
Noi dobbiamo far leva sulle emozioni, perché sono proprio le emozioni non
gestite e non elaborate ad attivare processi e meccanismi di difesa che portano
all'esclusione dell'Altro e al pregiudizio. Gli/le insegnanti, per aiutare i
bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze a creare e vivere contesti che si
aprano alle differenze, devono prima avere la possibilità di lavorare sulle proprie resistenze ad
accogliere la differenza stessa. Quindi credo che si tratti di un processo
fondamentale e imprescindibile, perché lavorando su di sé si può effettivamente
mettere in campo nei contesti scolastici, attraverso la propria identità personale
e professionale, la decostruzione dei processi di discriminazione; a mio
avviso, uno dei dettami fondamentali o uno degli obiettivi non negoziabili, se
così possiamo definirli, dell'agire educativo.
Focalizzando ora
l'attenzione sul tema della genitorialità, in che modo la comunità scientifica
si pone di fronte al tema della genitorialità omosessuale?
Quando
si parla di genitorialità omosessuale, un tema rilevante e assolutamente
preliminare è che vada riconosciuta l'autonomia tra l'orientamento sessuale e
l'esercizio delle competenze genitoriali: essere un buon genitore non ha nulla
a che vedere con l'essere omosessuali, eterosessuali o bisessuali; allo stesso
modo essere un buon genitore non ha nulla a che vedere con l'identità di genere
(essere uomini, donne o transessuali). Ciò che conta, in estrema sintesi, è la
capacità di mettere in campo le dimensioni che sono alla base di una buona
genitorialità (capacità di cura, contenimento, amore, affetto, regolazione
delle emozioni; garanzia di una sicurezza dell'attaccamento; capacità di dare
norme e regole; capacità di gestire processi evolutivi in modo adeguato
all'interno di contesti relazionali solidi e significativi dal punto di vista
emotivo-affettivo per i bambini e le bambine, etc.). Questo implica che ci possono
essere meravigliosi genitori eterosessuali, così come meravigliosi genitori
omosessuali; così come pessimi genitori eterosessuali e pessimi genitori
omosessuali. L'orientamento sessuale, ripeto, non ha nulla a che vedere con la
genitorialità. Una volta riconosciuto questo, tutti i modi di fare famiglia
sono legittimi purché si garantiscano in modo "sufficientemente buono" i
processi correlati all'esercizio di una adeguata ed efficace genitorialità.
Rispetto
ad un'altra imprescindibile questione, ossia la tutela del bene dei/delle
minori, la comunità scientifica vanta più di 40 anni di ricerca sul tema,
dimostrando che non ci siano differenze statisticamente significative (dal
punto di vista dei processi evolutivi normali e/o patologici) tra bambini/e che
vivono e crescono in nuclei omosessuali ed eterosessuali. Questo perché è
dimostrato scientificamente che ciò che conta non è la struttura della famiglia
(se omosessuale o eterosessuale), quanto più che altro la qualità delle
relazioni interne alle strutture. Tuttavia una differenza fondamentale c'è e va
evidenziata: i/le bambini/e che vivono e crescono in nuclei omosessuali sono
sottoposti/e a situazioni di stress maggiore rispetto a bambini/e che crescono
con genitori eterosessuali, a causa dell'omofobia sociale che può incidere sul
benessere familiare. Questo ci mette nelle condizioni di tornare al discorso prima
sviluppato, ossia di quanto sia importante, soprattutto nelle scuole, mettere
in campo processi di protezione ed educazione alle differenze affinché si
limitino sempre di più gli effetti dell'omofobia istituzionalizzata che anche
involontariamente potrebbe definire processi di violenza istituzionale reiterati
dalle stesse istituzioni scolastiche.
Nell'ambito della
genitorialità omosessuale, c'è una questione che potremmo definire "calda",
esplosa per una serie di questioni: la GPA. Cosa pensa rispetto a questo, anche
considerando la letteratura scientifica
sul tema?
Il
tema della GPA è veramente caldissimo in questo momento, anche a causa di tutta
una serie di manipolazioni di tipo ideologico, che creano tanta confusione
rispetto alla genitorialità, soprattutto quella omosessuale. Non è un tema che
può essere liquidato in modo veloce, perché ci sono tantissime implicazioni che
devono essere attentamente valutate: c'è tanto ancora da dibattere ed
analizzare, al di là dei diversi posizionamenti ideologici.
Prima
di tutto credo sia importante sottolineare che la GPA non interessa solo la
genitorialità omosessuale; i dati ci dicono che sono soprattutto le coppie
eterosessuali a ricorrervi. Questo è un dato che deve essere rilevato proprio
per non strumentalizzare e manipolare il discorso sull'omogenitorialità, anche
perché questo tema è esploso in modo assolutamente distorto nel momento in cui
si è dibattuto di unioni civili; il che ha portato all'infausto stralcio della
stepchild adoption dalla legge 76/2016.
Su
questo piano del discorso, ci sono sicuramente tantissimi livelli che vanno considerati.
Rispetto alle famiglie omosessuali, la ricerca si è focalizzata su quelli che
sono i vissuti e le rappresentazioni della coppia omosessuale rispetto al ruolo
del terzo. La portatrice/surrogata,
infatti può essere integrata nel vissuto familiare della coppia omosessuale
attraverso la continuità di rapporti, oppure può non essere inserita in tale
alveo. E questa questione inerisce tutte quelle pratiche di negoziazione che le
coppie omosessuali devono affrontare nel loro percorso di accesso e transizione
alla genitorialità, rispetto alla gestione dei processi relazionali.
Un'altra
questione che a mio avviso la GPA mette in campo è soprattutto quella inerente
la destrutturazione di un modello di genitorialità collegata solo ed esclusivamente
alla biologia. Si può essere genitori solo se si genera un/una figlio/a? La
portatrice/surrogata può e deve essere considerata una madre solo perché
genera, anche se non ha intenzione di svolgere quelle funzioni che sono legate
alla maternità?
Le
questioni quindi sono tante e complesse e possono essere risolte solo se
abbandoniamo posizioni preconcette e pregiudizievoli. La figura della portatrice/surrogata
è complessa da integrare nello scenario mentale, proprio perché mette a dura
prova il modello culturale di maternità, su cui tanta riflessione dovremmo
ancora fare, proprio per tentare di attraversare criticamente il mito di un
"istinto materno" o di una "maternità naturale" che non intende la maternità come una complessa costellazione in
cui concorrono dimensioni psicologiche, emotivo-affettive, ma anche sociali e
culturali. E anche questo è un tema caldo e scomodo da mettere in campo. Se la
maternità è una funzione e non una dimensione di ruolo, si aprono senza dubbio
nuovi scenari attraverso cui ripensare i modi di essere madri e padri oggi.
Quindi
in estrema sintesi (anche se è difficile tirare le somme su un tema così
complesso) io credo che garantendo la libertà delle donne di fare la scelta
della surrogacy, la loro capacità di autodeterminazione
e soprattutto la garanzia assoluta che non intervengano variabili di
sfruttamento o costrizione (che rispetto a come la surrogacy viene disciplinata
non sussistono assolutamente), possiamo considerare che oggi la GPA rappresenti
una frontiera degna di interesse con cui ci dobbiamo confrontare rispetto ai
modi "nuovi" di fare famiglia oggi; se non altro perché è una pratica già
esistente e che, rispetto alla genitorialità omosessuale, non ha implicazioni
negative, in quanto non è assolutamente imbrigliata in quelle situazioni o
dimensioni che la manipolazione ideologica sul tema vuole o tenta invece di mettere in evidenza.
Nel ringraziarla per le
sue preziose riflessioni le chiediamo di lasciare un ultimo messaggio ai nostri
studenti universitari..
Quello
che dico anche ai miei studenti e alle mie studentesse è di sentirsi sempre
partecipi di un processo di cambiamento, dal momento che il cambiamento non
viaggia mai sui massimi sistemi del mondo, ma parte dal piccolo, dal senso di responsabilità
di ognuno/a di noi, che ci vede tutti/e impegnati nella lotta per la destrutturazione
dei pregiudizi, per cercare di avere delle società più pluraliste, più
inclusive, ma soprattutto delle società in cui grazie all'impegno di ognuno/a
di noi si possano veramente garantire e tutelare quelli che sono inviolabili
diritti umani di adulti/e e bambini/e. Bisogna garantire ad ognuno/a la
possibilità di poter esprimere al massimo le dimensioni fondamentali della
propria identità, della propria identità di genere, del proprio orientamento
sessuale, e soprattutto del proprio progetto di amore, famiglia e genitorialità.