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L’arte al servizio di tutte le possibili identità

Opera di  Man Ray
Autoritratto sulla Bugatti verde di Tamara de Lempicka
Gruppo di quattro nudi di Tamara de Lempicka
Opera di Molly Landreth


A cura di Camilla Esposito 

Uno dei modi per fare diagnosi in psicologia è l’impiego di test grafici e di test proiettivi. Entrambi si basano su stimoli visivi: in particolare su disegni i primi e su stimoli visivi ambigui e poco strutturati i secondi. Entrambi i tipi di test citati si basano sul presupposto che uno stimolo visivo induca l’individuo ad investire lo stesso di vissuti conflittuali e fantasmatici.  
Questo ci dice probabilmente anche qualcosa sull’arte più in generale. Chi l’arte la fa, chi la crea dice qualcosa di sé nelle proprie opere; spesso, al contempo, utilizza il medium dell’arte per una propria personale necessità. Dall’altra parte c’è chi l’arte la guarda, la ammira, la fruisce: sono probabilmente quelli che nell’espressione artistica cercano, o trovano, qualcosa di sé. Per dirlo ancora con altre parole: l’identità di chi fa l’arte è sempre messa in gioco, così come l’identità di chi fruisce l’opera entra sempre in gioco.
L’arte ha da sempre rappresentato ciò che può dirci qualcosa di più sulle nostre identità, sul nostro essere umani, sui modi possibili di essere al mondo. Sono dunque queste le premesse per il nostro brevissimo viaggio attraverso l’arte, i generi e gli orientamenti sessuali.
Molly Landreth, attraverso il suo progetto fotografico “Embodiment: a portrait of queer life in America” del 2004, realizzato in sei anni in diversi stati d’America, ha dato voce e corpo alla comunità queer (aggettivo inglese utilizzato in passato nell’accezione di strano, bizzarro, eccentrico; oggi diventato un termine di rivendicazione di diversità, nonché termine ombrello che indica le differenti identità rappresentate dall’acronimo LGBT+). La sua storia personale, la sua identità si mescolano alla sua produzione fotografica. Quando da una piccola cittadina di campagna a un’ora da Seattle si trasferisce in California per studiare, inizia a conoscere la comunità LGBT.
 Proprio grazie all’aiuto della macchina fotografica la Landreth riesce a compiere il difficile processo di individuazione, a definire la propria omosessualità, fino a percepire un senso di appartenenza alla comunità LGBT e a sentirsi riconosciuta. I primi scatti fotografici sono infatti autoritratti: l’autrice si studia, la foto diventa una sorta di specchio in cui scandirsi. “La fotografia mi ha trasformato da una timida outsider a un’insider, sicura di sé. E presto mi sono rivelata come queer e come fotografa, a me stessa, ai miei amici e alla mia famiglia. Nessuno era veramente sorpreso. Credo che questo sia stato molto importante perché la fotografia e il mio essere queer sono arrivate nella mia vita mano nella mano”, racconta. Una volta appropriatasi della sua immagine, sente l’esigenza di volgere lo sguardo all’esterno, alla comunità queer. Ma se solitamente della comunità LGBT vengono fornite rappresentazioni parziali, sottolineando eccentricità e trasgressività dell’espressione dei corpi, le fotografie di cui stiamo parlando intendono cogliere la complessità delle persone ritratte, le loro storie, conservando aspetti quali etnia, religione, genere, luoghi di vita quotidiana. E lasciando, inoltre, ai partecipanti decidere in quale luogo farsi ritrarre, se da soli o con altre persone, come vestirsi. È l’autonomia, che qui vogliamo intendere come autodeterminazione, che ha caratterizzato la comunità queer e la ri-scoperta dell’omosessualità e dell’appartenenza di Molly Landreth, a fornirci l’attinenza con il prossimo artista. Si tratta di quello che è ritenuto l’iniziatore dell’arte contemporanea vera e propria: Marcel Duchamp. L’arte contemporanea riconosce la potenza espressiva che viene dal corpo, dal gesto, inteso in senso più ampio come “azione concettuale”. Riconosce, inoltre, la possibilità del gesto creativo di sovvertire un ordine del discorso già dato, un linguaggio, dei segni, categorie di pensiero già dati.
In Duchamp è evidente questo impiego del corpo come espressione di una identità individuale e culturale dai confini mobili, una trans-formazione, volendo azzardare un gioco di parole. Se nella storia dell’arte la virilità e l’autorità dell’artista sono tendenzialmente date per scontate, storicamente la donna ha assunto invece il ruolo dell’altro del processo creativo: l’oggetto dello sguardo, l’opera d’arte, l’immagine. La fotografia permette a Duchamp di spostare la figura dell’artista al centro dell’immagine, cosa che porta inevitabilmente a femminilizzarla: l’artista è improvvisamente oggetto, esposto allo sguardo, prendendo il posto tradizionalmente occupato dalla donna. È proprio nelle vesti di Rrose Sélavy, suo pseudonimo femminile, che Duchamp si farà fotografare da Man Ray.
L’ultimo esempio che porteremo è quello relativo all’artista bisessuale di origini polacche Tamara de Lempicka, esponente di spicco dell’Art Déco. Tra le sue opere più celebri Autoritratto sulla Bugatti verde, del 1929, che sarebbe diventato negli anni successivi simbolo della liberazione femminile, dell’emancipazione delle donne, della voglia di abbattere un sistema patriarcale che le vedeva subalterne; e Gruppo di quattro nudi, del 1925, in cui sembrano alternarsi sensualità e irrequietezza, ricerca spasmodica e tentativo di fuga, le solitudini di quattro donne in un dipinto che stenta a contenere i corpi.
Insomma, l’artista può ben rappresentare il tentativo di una donna di autonomia ed emancipazione, da una parte; la gabbia e la fatica di una femminilità operosa ed emancipata mai completamente lasciata libera di autodeterminarsi, dall’altra.

 

 

 

 
 

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