A cura di Alessia Cuccurullo
Nel 1989 Kimberlé
Crenshaw introdusse l’ipotesi sociologica del concetto di intersezionalità. La nota
giurista e attivista statunitense volle così esplicitare la molteplicità e
simultaneità dei sistemi di oppressione che coinvolgevano le donne
afroamericane all’epoca.
Etimologicamente,
“intersezionale” sta ad indicare qualcosa “che riguarda insieme più sezioni o
si svolge fra più sezioni”. Il termine, sempre più spesso utilizzato, è
divenuto basilare nelle politiche di contrasto alle discriminazioni di ogni
tipo e fondante la lotta per i diritti civili di ogni minoranza.
La Crenshaw partì da una critica a doppio binario all’interno
della sua esperienza di “black feminism”, ovvero della popolazione nera all’interno
dei movimenti femministi ed antirazzisti.
Si mise così in evidenza come da un
lato il femminismo bianco fosse eccessivamente etnocentrico e sostanzialmente
indifferente alle questioni razziali e dall’altro come i movimenti anti
razzisti fossero fondamentalmente sessisti e non considerassero la posizione
delle donne all’interno dei propri processi. Ciascuna di queste dimensioni veniva letta come fattore isolato,
disgiunto da altre linee di discriminazione.
A partire da
questa riflessione, l’attenzione fu dunque posta sulla questione relativa alla posizione dei soggetti
all’interno di insiemi di potere. Tale posizione viene infatti definita e
ridefinita da molteplici assi di differenziazione e discriminazione.
L’intuizione
di K. Crenshaw ha posto quindi in evidenza tre dimensioni essenziali da tenere
sempre in considerazione nel discorso sulle differenze e sulle discriminazioni:
1)
La
molteplicità o pluralità delle differenze;
2)
La simultaneità delle oppressioni e il rifiuto
di creare una gerarchia tra di esse;
3)
La necessità di porre attenzione al contesto e al posizionamento del
soggetto in un dato luogo e momento.
Questi aspetti pongono come questione fondante la necessità di una
conoscenza situata approfondita;
nei movimenti e nelle politiche identitarie di lotta ai diritti diventa dunque
essenziale tenere conto dell’intreccio delle varie forme di oppressione.
Ciò che va posto in evidenza nel concetto di intersezionalità,
infatti, è che non si tratta di un’addizione
di etichette: le condizioni di vita di ciascuno e le discriminazioni subite vengono
determinate da fattori che risultano essere contestuali e interconnessi.
Di conseguenza
è inevitabile considerare che tutti i movimenti identitari universalistici, i
quali individuano una sola categoria o un solo asse di differenziazione
come “privilegiato” e totalizzante, tendono a loro volta ad essere movimenti
marginalizzanti.
L’intuizione dell’attivista statunitense è quindi risultata, nel
tempo, utile e intelligente.
Il concetto di intersezionalità sta pian piano
diffondendosi e questo aspetto risulta essenziale soprattutto nel ruolo che
tale approccio può giocare all’interno delle politiche antidiscriminatorie.
Esso risulta infatti particolarmente utile anche per introdurre l’attenzione
a forme di discriminazione che fin’ora venivano oscurate nel dibattito pubblico,
a causa della particolare attenzione finora tributata ad alcune categorie di
persone particolarmente svantaggiate, alle minoranze all’interno della
minoranza e agli emarginati.
Tenere invece a mente che ogni persona appartiene a più categorie
sociali, che vanno considerate per la relazione che esiste fra di loro è il
primo passo per la costruzione di politiche sociali concretamente inclusive.