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Hate speech, revenge porn e cyberbullismo: quando la violenza di genere è agita in rete

Donna seduta col cellulare


A cura di Cecilia Montella                      

Hate speech, cyberbullismo e revenge porn… in cosa differiscono e cosa hanno in comune? Perché rappresentano una violenza connessa al genere? Per cyberbullismo in senso stretto si intende una serie di atti ripetuti nel tempo mirati a ledere una persona specifica. Questa definizione quindi prevede l’esistenza di un piano con un obiettivo preciso e predeterminato, la messa in opera di una catena di azioni volte al raggiungimento dell’obiettivo, e possibilmente la loro iterazione nel tempo. La necessità di questi elementi esclude buona parte dell’hate speech, per il quale siamo più in presenza di un’impulsività di un’azione volta non tanto a ledere un bersaglio, quanto a permettere all’agente di sfogare e scaricare una sua tensione interiore. Nel caso dell’hate speech quindi la lesione della persona oggetto degli insulti non è l’obiettivo, ma più una conseguenza. Il revenge porn è la condivisione pubblica di immagini o video intimi tramite Internet senza il consenso dei protagonisti degli stessi. E’ più corretto parlare di diffusione illecita che di vendetta: la locuzione revenge porn si riferisce genericamente al caricamento di materiale sessuale esplicito per vendicarsi dopo la fine di una relazione, ma talvolta il termine viene utilizzato anche in contesti non propriamente vendicativi, come ad esempio la distribuzione di pornografia senza consenso.
A partire dal mese di Agosto 2019, il revenge porn è un reato, per cui chi invia, cede, consegna, diffonde o pubblica video intimi senza il consenso dei protagonisti incorre in una pena che va da 1 a 6 anni di reclusione. Il revenge Porn, il cyberbullismo e l’hate Speech sono violenze di genere, perché colpiscono le donne in modo sproporzionato e riflettono una condizione di discriminazione sociale nei confronti delle donne e dinamiche di disuguaglianza di potere tra i sessi. In Italia, si stima che il 70% delle vittime sia di sesso femminile; secondo altre stime la percentuale sarebbe addirittura del 93%. La quasi totalità degli autori è di sesso maschile e le vittime risultano essere quasi sempre donne, ed ex-partner. Si tratta delle stesse dinamiche di dominio sull’altra, di sopraffazione e di annullamento della identità e dignità femminile nella relazione che raggiungono l’apice dinanzi alla ribellione della donna e alla perdita di controllo sulla stessa che si verificano anche nelle situazioni di maltrattamenti, di atti persecutori, fino alle condotte estreme di omicidio. Amnesty International ha pubblicato un rapporto per cui una donna su 5, tra le intervistate, ha dichiarato di essere stata vittima di molestie online, oltre la metà a natura misogina e sessista; in un quarto dei casi, vi si sono accompagnate anche minacce di natura sessuale e fisica. Nel 68% dei casi le vittime hanno dichiarato di provare apprensione al pensiero di usare internet ed i social, o che li utilizzino i loro cari.
L'emblema dello “stupro virtuale”, dell'intimità violata e data in pasto ai social è senza dubbio Tiziana Cantone. Per la 32enne di Mugnano di Napoli la "gogna mediatica" fu talmente insopportabile da portarla alla decisione di suicidarsi. Nemmeno la sua morte ha placato l'ondata di fango che la travolse perché addirittura dopo il suicidio c’è stata un'impennata della diffusione dei video, anche in forma di parodia. E’ necessario che ci si domandi allora come educare all’utilizzo del digitale, come sensibilizzare soprattutto i giovani ad un uso corretto, consapevole e rispettoso del web, una rete che amplifica le dinamiche sociali, accelerandole in maniera esponenziale.
Sembra essere necessario lavorare a un percorso che intanto faccia capire come si possa essere cittadini autenticamente digitali, non soltanto nell'utilizzo degli strumenti ma anche nel modo di pensare.

 

 

 

 
 

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