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La sessualità negata delle persone con disabilità.

Ragazza e ragazzo seduti sulla sedia a ruote che si guardano negli occhi.


A cura di Maria Cristina Maglia.

Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha introdotto un nuovo strumento di classificazione della disabilità: l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute). Esso ha proposto un approccio innovativo, universale e multidisciplinare alla persona. Infatti, secondo l’ICF la disabilità non è più considerata una condizione di un gruppo minoritario all’interno di una comunità, bensì un’esperienza che tutti possono sperimentare nel corso della propria vita. Dunque, tale classificazione è applicabile a tutti, persone normodotate o diversamente abili. Si tratta della costruzione di un quadro di riferimento innovativo ed unificato al fine di descrivere la condizione di salute di tutti gli individui.
Il modello di riferimento proposto è quello “Bio-Psico-Sociale”, il quale consente di porre attenzione al benessere della persona in maniera ampia e profonda. Esso equipara gli aspetti riguardanti la salute biologica della persona, in linea con un modello medico, la dimensione psicologica e quella della partecipazione sociale. In quest’ottica la disabilità è il risultato di un’interazione complessa  e dinamica tra fattori biologici, psicologici ed ambientali. Ciò permette di sviluppare una visuale globale della persona e delle sue esigenze, senza ridurre la persona ad una condizione limitante e/o di malattia; l’attenzione è posta, o meglio dovrebbe essere posta, sullo sviluppo delle sue abilità e della sua autonomia, promuovendo la creazione di contesti ambientali favorevoli in tal senso.          
In linea con la promozione dello sviluppo dell’autonomia delle persone con disabilità vi è la possibilità di accesso  alle naturali esperienze inerenti la sfera relazionale e sessuale. I diritti sessuali sono considerati diritti umani a tutti gli effetti, la cui violazione costituisce la violazione dei diritti all’uguaglianza, alla non discriminazione, alla dignità e alla salute.          
Nel 1993 l’ONU ha approvato un documento volto a riconoscere il diritto a tutte le persone con disabilità di esperire la propria sessualità. Esso è stato ripreso nella Dichiarazione dei Diritti Sessuali dell’OMS nel 2006, che sottolinea il diritto di tutti gli esseri umani ad accedere e a praticare la propria sessualità. Anche le agenzie educative ed i servizi sanitari sono tenuti a ricercare, ricevere e divulgare informazioni relative alla sessualità, così come le persone con disabilità hanno il diritto di:            
-ricevere un’educazione sessuale;        
- ricevere rispetto per la propria integrità fisica;              
- scegliere il/la proprio/a partner;          
- decidere di essere o meno sessualmente attivi;          
- intraprendere relazioni sessuali consensuali; 
- sposarsi;          
- diventare genitore;    
-ricercare una vita sessuale soddisfacente.       
Ancora oggi, purtroppo, la dimensione sessuale ed affettiva delle persone con disabilità  sono considerate dei veri e propri tabù ed oggetto di stereotipi particolarmente radicati.
Nel caso della disabilità, la dimensione sessuale è quasi sempre completamente negata.            
I bambini, gli adolescenti e gli adulti con disabilità in generale sono rappresentati nell’immaginario collettivo come soggetti asessuati, completamente indifferenti e disinteressati alla sessualità, oppure come estremamente deviati e devianti, protagonisti di azioni violente e mostruose.      
Se si pensa allo sviluppo sessuale, non inteso in termini strettamente biologici, ma come compito evolutivo del processo di formazione identitaria della persona ed anche parte del processo di socializzazione di tutti gli individui, considerata la criticità che caratterizza l’accesso a tale dimensione nel caso delle persone con disabilità, è inevitabile non prendere in considerazione le conseguenze che tale negazione può comportare sul piano psicologico e non solo. 
Lo sviluppo della sessualità nelle persone con disabilità si scontra con una serie di barriere, quasi sempre non manifeste, che finiscono per impedire lo sviluppo generale, sessuale ed emotivo della persona, e di conseguenza il suo benessere. In particolare è possibile distinguere due tipologie di barriere:     
- strutturali: ad esempio le politiche istituzionali che caratterizzano i contesti scolastici, le comunità e gli ambienti residenziali e lavorativi, che sono volte essenzialmente ad ostacolare l’accesso all’esercizio della propria attività sessuale, seppur svolto in maniera consapevole e responsabile.               
Nell’ambiente scolastico i bambini e gli adolescenti con disabilità  hanno meno interazioni e contatti con il gruppo dei coetanei rispetto ad i ragazzi ed i bambini con “sviluppo tipico”, che possono sperimentare relazioni di maggiore vicinanza emotiva e fisica. Ciò si amplifica quando il bambino o l’adolescente non vive nel contesto famigliare, ma in un “ambiente istituzionalmente protetto”, in cui è particolarmente presente il controllo comportamentale, che preclude ulteriormente le possibilità di socializzazione con i pari. Ciò richiama necessariamente il problema dell’emarginazione e dell’isolamento sociale, anche affettivo/emotivo, e dell’impossibilità di accesso al diritto di vivere liberamente la propria sessualità.
-Un’altra tipologia di barriera può essere definita “attitudinale”, poiché riguarda l’attitudine dei familiari, degli operatori e degli specialisti che si prendono cura della persona con disabilità, ad assumere atteggiamenti e comportamenti che negano il diritto ad accedere ed esprimere le naturali esigenze sessuali della persona. In realtà, ciò che viene negato ancor prima dell’attività sessuale, è l’esistenza stessa dell’esigenza sessuale, la quale potrebbe essere immaginata collettivamente come “perversa”, e dunque soggetta ad ambiguità e suscettibile di giudizio morale. Su tali presupposti, la strategia che viene utilizzata socialmente per far fronte alla sessualità della persona con disabilità consiste nella negazione e nell’evitamento. Sorge spontaneo chiedersi che cosa provoca disagio? E soprattutto, di chi è questo disagio, dell’operatore/genitore/educatore, che immagina e considera la sessualità della persona disabile come qualcosa di disturbante, e per questo poco confortevole, o della persona stessa?                
In Germania, Olanda, Danimarca e Svizzera da circa trent’anni è legalmente riconosciuta la figura dell’assistente sessuale, ossia un operatore professionale che accompagna il disabile attraverso un percorso che prevede un supporto psicologico, emotivo e sessuale. In Italia nel 2014 è stato proposto un disegno di legge dai senatori Sergio Lo Giudice e Monica Cirinnà del PD volto a regolamentare la figura dell’operatore sessuale con norme particolarmente rigide. Ciò ha suscitato particolari dibattiti soprattutto da parte di associazioni cattoliche e femministe rispetto alla confusione tra assistenza sessuale e prostituzione, rivendicando l’importanza dell’esistenza di tale figura senza però renderla legale.          
Se il disagio davvero non riguardasse la persona con disabilità ma l’Altro, quanto è egoistico e rischioso limitare lo sviluppo di una persona che si considera “limitata”, senza rendersi conto di essere “limitanti”, e che il vero limite è di chi lo pone impedendo la libertà dell’altro?!            



 

 

 

 
 

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