1. Contenuto della pagina
  2. Menu principale di navigazione
  3. Menu di sezione
 

Contenuto della pagina

Hate speech: le parole non sono mai solo parole

Tastiera del computer con simboli di incitamento all'odio


A cura di Camilla Esposito

Il linguaggio ha la fondamentale funzione di procurare nomi che permettono di catalogare la realtà, fornendo indispensabili mappe di senso per orientarsi nel mondo e soprattutto nelle relazioni. I linguaggi, al tempo stesso, hanno un’imponente carica normativa: veicolano ideologie, definiscono il ventaglio di possibilità che hanno gli esseri umani di stare al mondo, di essere. Certi nomi, di contro, definiscono il non-essere di alcuni: è il caso degli epiteti denigratori che promulgano disprezzo, odio, de-umanizzazione di individui semplicemente sulla base dell’appartenenza ad una determinata categoria. Ma facciamo un passo indietro. L’appartenenza rappresenta fin da sempre un fondamentale bisogno umano, che vede nell’esistenza del proprio gruppo necessariamente quella di un altro gruppo, di un Altro. L’appartenenza ad un gruppo, infatti, comporta una divisione psicologica tra ingroup e outgroup, tra dentro e fuori, noi e loro. La percezione dell’Altro, seppur appartenente al fuori e al loro, come essere umano è, nella maggior parte dei casi, punto di scaturgine di reazioni emotive ed emozionali, di empatia, di successo dei valori morali.
In alcuni casi, laddove stereotipi e pregiudizi nei confronti dell’Altro in quanto appartenente ad una certa categoria si fanno strada, possono verificarsi fenomeni di infraumanizzazione o di deumanizzazione. Se l’infraumanizzazione è da intendersi come svalutazione dell’umanità dell’altro rispetto alla propria e riduzione dell’Altro a caratteristiche animali, una recente teorizzazione della deumanizzazione, proposta da Haslam nel 2006, distingue due concezioni di deumanizzazione: una di tipo animalizzante, l’altra di tipo meccanizzante. Nel primo caso, se gli animali si distinguono dagli esseri umani per la loro natura irrazionale, istintiva e ignorante, allora i gruppi di individui animalizzati sono considerati mancanti di civiltà, di sensibilità morale, di capacità cognitive raffinate, senza alcuna possibilità di riscatto culturale. La deumanizzazione di tipo meccanicistico dequalifica le persone ad automi freddi e passivi, sprovvisti di emozioni. Ne è un esempio la deumanizzazione indotta nei campi di lavoro forzato: un modo di ridurre l’internato a macchina produttiva, pezzo intercambiabile di una catena di montaggio. In alcuni casi la deumanizzazione si arricchisce di ulteriori forme dequalificanti, quali la demonizzazione, l’oggettivazione e la biologizzazione. Dunque, non solo depennare l’umanità ma, nell’ordine, rendere anti-umano; oggetto e corpo da utilizzare; virus, morbo, agenti infettivi. E se, come ha sostenuto Amerio (2013), “costruisce l’altro chi ha il potere di farlo”, allora gli atti linguistici possono diventare atti di subordinazione. Un certo potere, una certa autorità nelle mani di chi ha assunto se stesso a parametro della normalità psicobiologica e sociale, ascrive l’altro allo straniero, al malato di mente, al tossicodipendente, all’omosessuale, e lo “costruisce”. Tale potere, tale autorità, detenuta formalmente o meno, registra delle conseguenze, in termini di atti illocutori e di atti perlocutori.
L’hate speech, o “discorso d’odio” o “linguaggio d’odio”, è un discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei loro confronti a causa della loro connotazione “razziale”, etnica, religiosa, culturale o di genere (Pino 2008; Van Dijk 2004). L’hate speech può essere concepito in termini di atti linguistici in due sensi: come atto illocutorio e come atto perlocutorio, distinzione di austiniana memoria. In senso illocutorio, le istanze del linguaggio d’odio costituiscono in se stesse forme di discriminazione razziale o di genere, di legittimazione di credenze e comportamenti discriminatori, di rafforzamento dell’oppressione e di incitamento alla violenza. In senso perlocutorio, il linguaggio d’odio causa discriminazione, producendo cambiamenti di credenze e comportamenti, producendo, dunque, degli effetti. Il parlante può sì detenere una qualche forma di autorità formale, tale che gli atti illocutori facilmente siano atti di subordinazione, ma può anche non possedere alcun tipo di autorità formale.
Nel primo caso, per esempio, un legislatore fa sì che le persone omosessuali non possano sposarsi. Il secondo caso è, invece, quello riscontrato nella maggior parte degli episodi di linguaggio d’odio. Secondo Maitra (2012) ci sono casi in cui i parlanti possono giungere ad acquisire un tipo di autorità pratica, pur non avendo alcuna autorità formale. Essa può derivare dal proprio ruolo sociale, essere autorizzata da qualcuno in posizione di autorità o essere legittimata dagli astanti. Spesso la felice riuscita di un atto di subordinazione attraverso un discorso d’odio è proprio risultato di un’omissione. A tutto ciò vanno sempre affiancate le condizioni sociali: il linguaggio d’odio si insedia e si insinua, subordina quando la presenza di credenze e prassi sociali gli offre già terreno. Tali evenienze sono sensibilmente riscontrabili nel caso del Web, dove lo spazio della piazza pubblica diventa spesso di omissione e di unità contro un loro fatto di “stranieri” che dimorano oltre i confini dell’ordine e delle norme vigenti.

 

 

 

 
 

© 2013 - bullismoomofobico.it