A cura di Camilla
Esposito
Il linguaggio ha la fondamentale
funzione di procurare nomi che permettono di catalogare la realtà, fornendo indispensabili
mappe di senso per orientarsi nel mondo e soprattutto nelle relazioni.
I linguaggi, al tempo
stesso, hanno un’imponente carica normativa: veicolano ideologie, definiscono
il ventaglio di possibilità che hanno gli esseri umani di stare al mondo, di
essere. Certi nomi, di contro, definiscono il non-essere di alcuni: è il caso
degli epiteti denigratori che promulgano disprezzo, odio, de-umanizzazione di
individui semplicemente sulla base dell’appartenenza ad una determinata
categoria.
Ma facciamo un passo
indietro. L’appartenenza rappresenta fin da sempre un fondamentale bisogno
umano, che vede nell’esistenza del proprio gruppo necessariamente quella di un
altro gruppo, di un Altro. L’appartenenza ad un gruppo, infatti, comporta una
divisione psicologica tra ingroup e outgroup, tra dentro e fuori,
noi e loro.
La percezione
dell’Altro, seppur appartenente al fuori e al loro, come essere umano è, nella
maggior parte dei casi, punto di scaturgine di reazioni emotive ed emozionali,
di empatia, di successo dei valori morali.
In alcuni casi, laddove stereotipi e
pregiudizi nei confronti dell’Altro in quanto appartenente ad una certa
categoria si fanno strada, possono verificarsi fenomeni di infraumanizzazione o
di deumanizzazione. Se l’infraumanizzazione è da intendersi come svalutazione
dell’umanità dell’altro rispetto alla propria e riduzione dell’Altro a
caratteristiche animali, una recente teorizzazione della deumanizzazione,
proposta da Haslam nel 2006, distingue due concezioni di deumanizzazione: una
di tipo animalizzante, l’altra di tipo meccanizzante.
Nel primo caso, se gli
animali si distinguono dagli esseri umani per la loro natura irrazionale,
istintiva e ignorante, allora i gruppi di individui animalizzati sono
considerati mancanti di civiltà, di sensibilità morale, di capacità cognitive
raffinate, senza alcuna possibilità di riscatto culturale. La deumanizzazione
di tipo meccanicistico dequalifica le persone ad automi freddi e passivi,
sprovvisti di emozioni. Ne è un esempio la deumanizzazione indotta nei campi di
lavoro forzato: un modo di ridurre l’internato a macchina produttiva, pezzo
intercambiabile di una catena di montaggio.
In alcuni casi la
deumanizzazione si arricchisce di ulteriori forme dequalificanti, quali la
demonizzazione, l’oggettivazione e la biologizzazione. Dunque, non solo
depennare l’umanità ma, nell’ordine, rendere anti-umano; oggetto e corpo da
utilizzare; virus, morbo, agenti infettivi.
E se, come ha sostenuto
Amerio (2013), “costruisce l’altro chi ha il potere di farlo”, allora gli atti linguistici
possono diventare atti di subordinazione.
Un certo potere, una
certa autorità nelle mani di chi ha assunto se stesso a parametro della
normalità psicobiologica e sociale, ascrive l’altro allo straniero, al malato
di mente, al tossicodipendente, all’omosessuale, e lo “costruisce”.
Tale potere, tale
autorità, detenuta formalmente o meno, registra delle conseguenze, in termini
di atti illocutori e di atti perlocutori.
L’hate speech, o
“discorso d’odio” o “linguaggio d’odio”, è un discorso finalizzato a promuovere
odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano
disprezzo nei loro confronti a causa della loro connotazione “razziale”,
etnica, religiosa, culturale o di genere (Pino 2008; Van Dijk 2004). L’hate
speech può essere concepito in termini di atti linguistici in due sensi:
come atto illocutorio e come atto perlocutorio, distinzione di austiniana
memoria.
In senso illocutorio,
le istanze del linguaggio d’odio costituiscono in se stesse forme di
discriminazione razziale o di genere, di legittimazione di credenze e
comportamenti discriminatori, di rafforzamento dell’oppressione e di
incitamento alla violenza. In senso perlocutorio, il linguaggio d’odio causa
discriminazione, producendo cambiamenti di credenze e comportamenti,
producendo, dunque, degli effetti.
Il parlante può sì
detenere una qualche forma di autorità formale, tale che gli atti illocutori
facilmente siano atti di subordinazione, ma può anche non possedere alcun tipo
di autorità formale.
Nel primo caso, per esempio, un legislatore fa sì che le
persone omosessuali non possano sposarsi. Il secondo caso è, invece, quello
riscontrato nella maggior parte degli episodi di linguaggio d’odio. Secondo
Maitra (2012) ci sono casi in cui i parlanti possono giungere ad acquisire un
tipo di autorità pratica, pur non avendo alcuna autorità formale. Essa può
derivare dal proprio ruolo sociale, essere autorizzata da qualcuno in posizione
di autorità o essere legittimata dagli astanti. Spesso la felice riuscita di un
atto di subordinazione attraverso un discorso d’odio è proprio risultato di
un’omissione.
A tutto ciò vanno
sempre affiancate le condizioni sociali: il linguaggio d’odio si insedia e si
insinua, subordina quando la presenza di credenze e prassi sociali gli offre
già terreno.
Tali evenienze sono
sensibilmente riscontrabili nel caso del Web, dove lo spazio della piazza
pubblica diventa spesso di omissione e di unità contro un loro fatto di “stranieri”
che dimorano oltre i confini dell’ordine e delle norme vigenti.