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IL «DONO» DELLA LEGITTIMAZIONE

lo stesso amore gli stessi diritti

A cura di Daniela Scafaro

GLI IRLANDESI HANNO DETTO «SI!» ALLE NOZZE GAY.

È di pochi giorni fa la notizia dell'esito del referendum popolare con cui gli irlandesi hanno dato una lezione di civiltà a tutto il mondo dimostrando che un cambiamento è possibile anche laddove c'è una secolare tradizione conservatrice.  La cattolica Irlanda è infatti diventato il primo paese al mondo ad introdurre i matrimoni gay con un mandato popolare. I «Si» sono stati una vera e propria valanga (a livello nazionale la percentuale ha superato il 60% con picchi oltre il 70%) che ha travolto il pregiudizio restituendo dignità a chi da troppo tempo attendeva un riconoscimento.
Ma in Italia?
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Per il nostro Stato, quindi, almeno idealmente, siamo tutti uguali. Ma siamo proprio sicuri che sia davvero così? Come sottolinea Lingiardi (2007) "I cittadini dovrebbero essere tutti uguali e, in questa uguaglianza, sostanzialmente anonimi. In pratica, invece, c'è un cittadino che è meno uguale degli altri perché, se vuole, non può sposarsi" (p.11). Allo Stato non dovrebbe importare dell'orientamento sessuale dei suoi cittadini eppure, di fatto, a causa del loro orientamento gli omosessuali si vedono negare il diritto ad una pari dignità sociale e tutela giuridica.
"La persona omosessuale non costituisce uno specifico sociale o psicologico: essere gay non è un merito o un demerito. Il gusto personale non dovrebbe fare aggregazione politica e se lo fa è perché stigmatizzato" (Lingiardi, 2007, p. 12).

Alla notizia della vittoria del «Si» in Irlanda la presidente Laura Boldrini ha tweettato:
"Dall'Irlanda una spinta in più. È tempo che anche l'Italia abbia una legge sulle unioni civili. Essere europei significa riconoscere i diritti".
Che la politica italiana impari la lezione e decida di mettersi finalmente al passo con il resto dei paesi europei?
Come recita il detto "La speranza è l'ultima a morire", ma dato l'avvicendarsi nel corso degli anni di promesse mai mantenute e delle troppe parole al vento che mai si sono tradotte in una concretezza di fatti, lo scetticismo è d'obbligo.

Infatti, nonostante con la risoluzione del 18 gennaio 2006 il Parlamento Europeo abbia invitato gli Stati Membri e la Commissione Europea a intensificare la lotta contro l'omofobia attraverso l'utilizzo di vari strumenti (didattici, giudiziari, legislativi...), nonostante nel 2007 l'Unione Europea abbia istituito la "Giornata Mondiale Contro l'Omofobia" (celebrata il 17 maggio di ogni anno), nonostante i casi di violenza fisica e psicologica ai danni delle persone omosessuali siano all'ordine del giorno, nonostante le esortazioni del Parlamento Europeo a parificare coppie gay ed etero, in Italia non esiste una vera e propria legge contro l'omotransfobia e i disegni di legge di volta in volta avanzati in questi anni (Pacs, DICO etc.) si susseguono senza mai portare a nulla di concreto.
Eppure riconoscere le unioni civili avrebbe ripercussioni positive dal punto di vista socio-culturale in quanto segnerebbe un primo passo verso l'uscita dal dogmatismo eterosessista nel quale siamo da sempre tristemente impelagati.

L'omofobia, infatti, in ogni sua manifestazione, trae forza anche del mancato riconoscimento alle persone omosessuali di un pieno diritto di cittadinanza.
Ricerche condotte nei paesi in cui le relazioni omosessuali sono state riconosciute legalmente indicano una riduzione della discriminazione nei confronti delle persone gay e lesbiche, un aumento della stabilità delle loro relazioni, un miglioramento della loro salute fisica e mentale quindi, in definitiva, una riduzione del minority stress ovvero il disagio psicologico derivato dal fatto di appartenere a una minoranza discriminata (King e Bartlett, 2006).
Senza un riconoscimento sociale, senza una cittadinanza morale è più semplice che una rappresentazione stigmatizzante si consolidi nella mente comune come giusta e/o normale, al contrario, una positiva presa di posizione istituzionale disincentiverebbe le azioni violente e persecutorie. 

Riferimenti
Ø  King M., Bartlett A. (2006), What same-sex civil partnership may mean for health, in Community Health, 60.
Ø  Lingiardi V., Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, il Saggiatore, Milano, 2007

 

 

 

 
 

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