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Donne Trans al Lavoro: il Doppio Stigma

Intervista a Daniela Lourdes Falanga

Formazione e sensibilizzazione nelle scuole

A cura di Francesca Diletta Iavarone.

- So che in Italia è ancora molto sentito il problema legato al lavoro per le donne trans. Puoi raccontarci qualcosa e farci un’analisi contestuale?
 In Italia la questione lavoro legata alle donne trans, in particolare, è ancora critica. Cambiano i tempi ma si fa fatica a generare una cultura nuova, che proietti i corpi delle donne trans nel mondo del lavoro. A essere onesta è proprio questo il problema, le donne trans vivono un forte stigma legato ai perimetri corporali e quindi al modo in cui vengono percepite in un mondo binario e profondamente stereotipato. Così i corpi, fortemente politici delle donne trans, traduttori di un’autenticità che rappresenta una straordinaria rivoluzione umana, sono assoggettati ad analisi di preconcetto e, quindi, spesso messi fuori dal mondo del mercato. 

 - Sappiamo che le donne cisgender subiscono soprusi di vario tipo sul luogo di lavoro. In che modo li vivono le donne trans?
 Se le donne cisgender sentono forte una disuguaglianza in ambito sociale, tanto da dover denunciare e strutturare politicamente la questione, diventa oltremodo oltraggioso ciò che le donne trans sono costrette a subire. In parte le dinamiche sono accomunabili perché, se puntualizziamo l’attenzione sui corpi, possiamo considerare che chiunque esca fuori da quei parametri stereotipati, sempre più idealizzati, viva un rifiuto e questioni complicate e indesiderate contro le quali lottare, e in ogni caso si è già concepite con un’attenzione di secondo piano che si rimanda in ogni ambito sociale; d’altra parte le donne trans sono costrette a subire una cultura machista e binaria che non fa differenza rispetto a chi l’agisce e anche le donne cisgender non sono esenti dal rifiuto che si può generare. Quindi lo stigma si fonde in ogni spazio in cui le consuetudini definiscono il pensiero delle persone; ci si può trovare davanti ad un imprenditore o ad un’imprenditrice ma se lo sguardo dell’altro o dell’altra non sono scevri da una visione povera verso chi affronta un colloquio, inevitabilmente si realizza l’esclusione, anche in maniera subdola, cioè senza fare riferimento a ciò che realmente la genera. 

 - Spostandoci in altri ambiti di lavoro, anche se può sembrare una considerazione ormai superata, sento che ancora sia comune l’associazione tra donna trans e prostituzione. Tu che pensi di questa questione?
 È vero che fino a dieci anni fa le donne trans vivevano condizioni diverse da quelle attuali. Oggi, grazie a maggiori consapevolezze, i genitori supportano i loro figli dettando inevitabilmente un approccio diverso alla vita, dipendente dalle proprie scelte. Prima, nell’assoluta distanza di una comprensione familiare, le donne trans rifiutate nell’ambito lavorativo, si costringevano ad investire sui propri corpi e quindi nella “non scelta”. Una “non scelta” molto dolorosa, in cui gli affetti e la vita sociale costruivano spazi di solitudine e marginalità. Il problema è in una cultura che fa fatica a scardinare il pregiudizio. E’ quindi fondamentale coinvolgere le nuove generazioni per dare altri strumenti di analisi e scardinare retaggi violenti.  

 - C’è un’Italia più complicata di un’altra rispetto a ciò che mi racconti?

 Sì, il centro Sud fa più fatica rispetto al Nord a proiettarsi verso una cultura di accoglienza e consapevolezza, anche se le donne trans più adulte denunciano le stesse inappropriate condizioni. Quindi la questione è legata soprattutto a una differenza generazionale che chiarisce come le famiglie siano fondamentali nei vissuti delle persone. A Sud permane una realtà non inclusiva e bisogna gestire la cosa su un piano istituzionale. Rimane ancora un’emergenza sociale che include molte giovani donne trans.   

- Mi spieghi in che senso dici che ci sia la necessità di gestire i fatti su un piano istituzionale?
Non esiste una legge contro l’omotransfobia né esistono spazi adibiti alle persone vittime di stigma. Vuol dire che l’Italia è colpevole di perpetrare un’esclusione che non ha mai avuto senso di essere e continua a non prendersene cura. Forse adesso si aprono spiragli in  una direzione diversa. Oggi sono tantissime le donne trans cinquantenni e sessantenni che vivono i marciapiedi esistenziali. È un’emergenza di cui bisogna prima possibile farsi carico perché crescerà il numero di persone sole e non incardinate in un sistema binario che le esclude. Devono assolutamente nascere spazi ad hoc in modo da rendere meno drammatici i vissuti di chi necessita di un supporto e che porta con sé istanze peculiari. Diventa importante investire nella formazione di aziende e nella formazione di giovani adulti nelle scuole. Questo si può fare entrando in stretto contatto con imprenditori e studenti e chiarire in che modo si realizzano pregiudizi che non hanno senso di continuare. Incontro spesso gli imprenditori del napoletano, i quali mettono a disposizione i propri dipendenti. Certo questo l’ho potuto realizzare reagendo con determinazione e in prima persona a tutto ciò e sempre strutturando comunicazioni chiare.     

- Mi parli di formazione. Mi faresti un esempio per rendere chiaro come si possa destrutturare il pregiudizio?
Sono da sempre dell’idea che le persone trans siano le migliori portavoci delle loro istanze. Sono empirica nella formazione, scelgo di farmi attraversare proiettando la mia visibilità di donna trans e quando ce n’è bisogno definisco delle differenze che subito sottopongono agli uditori un’analisi immediata. Rendere visibile un uomo trans, soffermandosi sulla percezione che ne consegue, cioè sul modo in cui si viene percepiti come uomo e come donna in maniera stereotipata, fa emergere una realtà che nella maggior parte delle volte abbatte le distanze.   

- In che modo?
È sempre un male generalizzare e quando ci soffermiamo sulla questione dello stigma rivolto alle persone trans, soprattutto alle donne trans, non vuol dire che gli uomini ne siano esenti. Semplicemente gli uomini trans, il più delle volte, assumono un aspetto che si coniuga con una visione di massa binaria e, pur non avendo sempre i documenti confacenti alla propria identità di genere, serve questo per non assoggettarli alla marginalità. Allora la colpa ricade su ciò che una colpa non può essere, cioè sulla natura del proprio corpo, preda di ignoranza. Si palesano le differenze e quel “non si vede proprio” rivolto solitamente agli uomini trans, contempla la pienezza di un’ingiustizia assoluta. C’è chi sottolinea che l’uomo trans assume una forma di potere che è propria del genere di appartenenza, cioè quello maschile, ma è anche vero che questa rimane pur sempre una conclusione appartenente alle persone maggiormente emancipate sul piano culturale. In realtà la questione è molto più semplice ed immediata in certi contesti.   

- Allora anche in un colloquio lavorativo può avvenire una discriminazione immediata, nonostante il nome ancora non rifletta il genere d’elezione (quello sentito)?
 È proprio lì che nella maggior parte dei casi avviene il primo rifiuto. Siamo onesti: siamo vittime delle consuetudini, di una banalità che evidenzia com’è facile neutralizzare esistenze. Chiunque sceglie chi merita il lavoro o meno, quando si trova davanti a una persona trans, lo fa assecondando una visione che riflette il suo modo di percepire le cose, dipende da un’appartenenza di situazioni che fissa le condizioni in cui nasce addirittura un senso di inquietudine, determinando un tipo di selezione. Puoi portare con te tutte le competenze necessarie a gestire un colloquio e a garantire che vada a buon fine, ma se non rispecchi una visione consueta delle cose, inevitabilmente ne fai i conti. Questa è la più grande ingiustizia che una persona rivoluzionaria e libera possa subire.   

 

 

 

 
 

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