A cura di Alessia Cuccurullo e Nicola Dario Casolare
Che
cosa lega il mondo dello sport con le tematiche che il Servizio
Antidiscriminazione quotidianamente affronta? Sport e omofobia sono due temi
strettamente legati, sebbene apparentemente distanti. Sono invece molti gli
studi che, a partire da episodi di cronaca e riflessioni sul mondo dello sport
hanno tentato di approfondire queste connessioni.
Lo sport, inteso come
contesto socio-relazionale affonda le proprie radici emozionali,
comportamentali e dinamiche nell'epoca preistorica. Le origini tribali dello
sport vedono nella sopravvivenza connessa alla caccia il prototipo
motivazionale, l'antecedente evolutivo basilare per comprendere le dinamiche
che sottendono l'attività sportiva agonistica e non. Gli atteggiamenti di
aggressività, lotta, rabbia e protezione di sé mutuati dalle attività di
caccia, evolsero nelle epoche successive. Nella società contemporanea la specie
umana non è più costretta ad impegnarsi in battute di caccia per procacciarsi il
cibo né tantomeno (in tempi di pace) combatte per la propria sopravvivenza. Si
ipotizza quindi che gli odierni sport di squadra rappresentino un retaggio
delle tendenze istintuali primitive. Secondo questa concezione lo sport di
squadra costituisce un odierno gioco tribale in cui anche se in modo
regolamentato e ben lontano dalla ferocia delle cacce gruppali dell'uomo
preistorico o dalle lotte legate alla vita della storia seguente alla
preistoria, l'uomo in forma simbolica esegue le sue cacce e le sue lotte,
facendo riemergere (in esso) quegli istinti di aggressività e di tattica della
sopraffazione che si trovano in ognuno di noi. In questo senso si
verificherebbe una sorta di trasmissione intergenerazionale di istinti e
pulsioni in forma sublimata, che si rifletterebbe nell'aver originato giochi di
vario tipo, il cui sostrato poggia su emozioni di rischio e incertezza, e
sull'espressione di brutalità tra gli atleti.
Pensiamo alla lotta greco-romana,
dove nelle arene gli stessi spettatori potevano vivere in prima persona le
proprie tendenze aggressive in maniera filtrata. In questo senso i giochi
sportivi, da un punto di vista psicologico, in quanto derivato delle attività
ancestrali di lotta, possono essere considerati una sorta di guerra caccia
simbolica "disciplinata dai regolamenti e dal fair play".
Sulla scorta delle evidenze
deducibili da quanto scritto in precedenza, il gioco di squadra può essere
considerato una realtà gruppale a pieno titolo.
L'essere umano, seguendo la
tradizione aristotelica, è considerato come "animale sociale". Egli cioè è
innatamente votato all'intessere rapporti con altri significativi e non con cui
entra in contatto mediante un processo empatico fondato su una reciproca
identificazione cognitiva ed emozionale in cui si intrecciano vissuti
esperienziali e fantasie (inconsce) di vario genere. La formazione
dell'identità pertanto non può prescindere dall'essere gettato del
soggetto, ancor prima dell'effettiva nascita psicologica, in un determinato
ambiente socio-culturale permeato da altrettanti specifici sistemi valoriali,
etici, comportamentali e legislativi. Ciò detto, in altri termini, mette in
risalto quella che è la natura della formazione identitaria, ossia il suo
essere costitutivamente un processo socializzato. Il divenire uomo e donna si
inscrive lungo una linea evolutiva nella quale convergono, oltre ai fattori
costituzionali, anche e in particolare elementi culturali e sociali
dall'ambiente di vita.
Lo sport al pari degli altri
organismi sociali non sembra essere esentato dal seguire questa logica di
adesione agli stereotipi di genere,
che sfocia nel pregiudizio sessista e omofobo. Ciò rende il contesto sportivo
un ambiente sessualizzato e la sessualità un principio strutturante (lo sport)
che influisce nettamente sul grado di partecipazione degli individui e sulla
loro scelta di frequentare siffatte realtà. A tal riguardo, va posta
l'attenzione sui numerosi tentativi di apertura e lotta verso il
pregiudizio omofobico, verificatisi
piuttosto recentemente. In concomitanza dei mondiali di calcio 2014 tenutisi in
Brasile, ad esempio, l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani
Navi Pillay rivolse un appello ai calciatori omosessuali in cui li esortava a
dichiarare il proprio orientamento. "Chi è omosessuale lo dichiari. È il modo
migliore per aiutare gli omosessuali nel mondo ad essere accettati"; queste le
parole utilizzate dalla leader politica in cui emerge chiara e forte l'idea
secondo cui fare coming out è l'unico modo per far accettare ciò che veramente
si è. A
questa richiesta si sono associati
alcuni coming out da parte di atleti provenienti da tutto il mondo e dalle più
svariate discipline sportive.
Nonostante la presenza crescente,
rispetto al passato, di campagne contro l'omofobia (pensiamo ad esempio
all'istituzione a partire dal 2007 della giornata nazionale contro omo e trans
fobia il 17 Maggio) e i diversi coming out, l'ambiente sportivo sembra ancora
esercitare un'azione fortemente limitante circa la possibilità di esprimere
liberamente il proprio orientamento sessuale. Ciò è vero in particolare in
alcuni paesi, per alcuni sport e soprattutto nel mondo maschile. Tale fenomeno
spinge e costringe molti atleti professionisti e non a vivere la propria
esistenza relegati nel cosiddetto "closet". Le ragioni che sottendono queste
realtà fatte di episodi e dichiarazioni discriminatorie e carattere omofobo
sono da rintracciarsi nelle logiche legate alla visione stereotipica e
stigmatizzata dei ruoli di genere.
Al sesso maschile è connesso il
cliché che dipinge, vuole e decreta per il maschio la necessità di aderire agli
ideali di forza e virilità affinché possa essere considerato in quanto tale,
cioè maschio. Si delinea così una sorta di "prototipo stereotipato" ideale cui
doversi conformare, pena la marginalizzazione. Come evidenzia Messner
nell'immaginario comune l'atleta incarna l'idea di ciò che significa essere
uomo. Pertanto lo sportivo deve inevitabilmente presentarsi ed essere percepito
come conforme al concetto di uomo macho e virile il cui significato risiede
nell'essere e nel riuscire a porsi in contrapposizione a ciò che forte e virile
per natura non lo è: la donna e l'omosessuale. L'atleta è quindi chiamato ad
esemplificare il senso stesso di essere uomo in contrasto a ciò che vuol dire
essere donna o gay secondo i dogmi della cultura d'appartenenza. Lo sportivo
dunque è il macho per antonomasia. Di conseguenza essere gay diventa una
minaccia per l'immagine degli sport maschili nella misura in cui l'omosessuale
costituirebbe l'antitesi di ciò che coincide con l'essere macho, virile e
aggressivo. Di qui la mistificazione del "diverso" e la manifestazione
ampiamente documentata di forme di ostilità maggiore e il minor grado di
tolleranza/accettazione dell'omosessualità maschile rispetto a quella
femminile.
Un siffatto paradigma si colloca in
quello che Connell (1987, 2005) definisce come "hegemonic masculinity". La
mascolinità egemone si riflette nella costruzione delle regole di genere volte
a garantire la posizione dominante degli uomini che ad essa si conformano cui
si associa la subordinazione delle donne nella società. L'archetipo di
mascolinità crea essenzialmente una gerarchia nelle strutture societarie al cui
vertice sono posti i maschi eterosessuali. Al gradino più basso di un siffatto
ordine piramidale ci sono le donne e gli omosessuali. All'interno di questo
paradigma l'omosessualità femminile nonostante più tollerata è parimenti
marchiata da visioni preconcette. Seguendo infatti la dinamica stereotipica
legata alla figura femminile, emerge sostanzialmente la raffigurazione di una
persona più emotiva, fragile e debole rispetto all'uomo.
Il mondo dello sport però richiede
alle atlete caratteristiche fisiche e psichiche di determinazione, coraggio e
prestanza considerate di patrimonio maschile. Quindi una donna che pratica
sport, soprattutto a livello agonistico, tende ad essere considerata come in
possesso di queste qualità che, essendo attribuite all'uomo determinano il
concepirla spesso come mascolina, poco femminile, dunque lesbica poiché la
mancata grazia (riconosciutale) che sancisce il poter essere
definite donne è intesa come una
sorta di de-femminilizzazione.
Tutto ciò delinea il profilo dei
"sex-typing sports", ossia la concezione secondo cui esisterebbero sport
conformi all'uomo non adatti alla donna e viceversa, la cui corrispondenza è
delineata in funzione degli stereotipi legati al genere.
Nei gruppi sportivi fare coming out
non si rivela essere una scelta conveniente poiché fingersi eterosessuali a
volte risulta essere funzionale a preservare le relazioni di gruppo e a
garantire la continuità del supporto economico e pubblicitario offerto dagli
sponsor. A motivo di ciò spesso gli atleti tendono a dichiararsi gay o lesbiche
al termine della propria carriera.
Infatti, gli atleti, soprattutto di
sesso maschile che si sono dichiarati (gay) mentre erano ancora in attività
sono ancora pochi. E'soprattutto nel mondo del calcio maschile che
l'omosessualità è censurata in quanto tabù. Il calcio è tra le tante attività
sportive quella che insieme al baseball, al basket o al pugilato è simbolo per
eccellenza di machismo e mascolinità. Per un calciatore gay "uscire allo
scoperto" significa esporsi al rischio di diventare oggetto di discriminazione
da parte dei compagni di squadra, della tifoseria e dei media. A ciò si legano
grossi interessi di natura economica connessi alle logiche del calcio-mercato e
alla spettacolarizzazione dei calciatori che si muovono nella direzione di insabbiare
e proteggere da eventuali scandali.
Nel calcio femminile l'omosessualità sembra
essere maggiormente accettata in virtù dello stereotipo sopra descritto. Ciò da
un lato si riflette in una maggiore frequenza dei coming out di calciatrici, ma
dall'altro non sembrano mancare episodi di violenza e discriminazione a
carattere omofobo.
Herek
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I classificato al concorso: "Ascoltati"
II classificato al concorso: "Equality"
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