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L'inclusione tra situazioni da incubo e progetti in incubazione. Intervista all'Assessore Giuseppina Tommasielli.

di Paolo Valerio, Stefano Oliverio

La questione dell'inclusione sociale è uno degli aspetti più significativi della teoria e della pratica della democrazia. Tanto più in un'epoca di crisi, in cui molte conquiste che erano ormai date per scontate vengono messe in discussione e molti approcci consolidati sono sottoposti a riesame. Nessuno meglio di chi è in prima linea nel difficile compito di coniugare l'impegno all'inclusione sociale con i nuovi (spesso drammatici) scenari può aiutarci a capire in che direzione ci stiamo muovendo.
Per questo SInAPSi ha incontrato la Dott.ssa Giuseppina Tommasielli, Assessore al Comune di Napoli con delega alle Pari Opportunità, allo Sport, ai Giovani e, da poco, anche alla Sanità. Il colloquio parte proprio dai nuovi cimenti che la crisi impone agli amministratori.

 
Il tema dell'inclusione - dichiara l'Assessore - è davvero scottante perché con la crisi economica si sta verificando un impoverimento della popolazione (si pensi al calo di occupazione; alla disoccupazione giovanile; alla crescita del numero di donne che non lavorano, con tutte le problematiche connesse). Tale impoverimento è inasprito dalla riduzione cui si è costretti nell'offerta dei servizi tanto da parte del Comune quanto da parte della Sanità (per fare solo un esempio). Qui noi scontiamo due peccati originali: anzitutto, la spesa sociale pro capite del Comune è inferiore a quella del resto del Paese; in secondo luogo, sul versante del Servizio Sanitario, la quota pro capite è stabilita in base all'età. Noi in Campania siamo mediamente più giovani e quindi la quota destinata ai cittadini campani è più bassa rispetto, per esempio, a quella per i cittadini liguri. È un dato assolutamente preoccupante perché il parametro da prendere in considerazione non dovrebbe essere l'età media ma la deprivazione sociale, atteso che - come tutti gli studi dimostrano - questa è molto più dell'età un fattore che incide sulla salute. C'è, in altri termini, una correlazione dimostrata fra tasso di morbilità e indice di povertà. Se a questo aggiungiamo che siamo la Regione in cui ci si ammala di più per patologie neoplastiche (la provincia di Caserta sei volte la media nazionale, la città di Napoli tre volte), si comprende come la situazione sia critica.
 
E che cosa un ente locale può fare per ovviare a questa situazione?
Anzitutto non si può prescindere dalla realtà: la nostra è una Regione con un debito molto alto. L'Ente locale deve operare quindi - lo so che la parola è invisa - una spending review. Ma essa non deve essere considerata solo uno strumento punitivo. Forse è meglio parlare di ottimizzazione delle risorse. Non si può più proporre lo stesso format di venti anni fa quando domanda e offerta di servizi erano settati a diversi parametri: la domanda era più bassa e l'offerta più alta. Dobbiamo mettere a punto nuovi modelli che rendano sostenibili spesa ed erogazione dei servizi. Il che significa ripensare i servizi. Per essere concreti e fare un esempio: non è più pensabile che le persone anziane siano in case di riposo (con costi di 300€ al giorno per la comunità). La persona anziana può rimanere nella sua abitazione, attivando una rete di sostegno sul territorio. Lo stesso si può dire per i minori a rischio o per altre categorie di persone svantaggiate. O pensiamo ancora al caso della sanità. Il diabete, per esempio, si sta sempre più diffondendo, anche a causa del peggioramento degli stili di vita derivante da deprivazione sociale. Ma non possiamo pensare che esistano reparti specifici, in cui il posto-letto costa 400€ al giorno. Dobbiamo immaginare piuttosto dei centri sul territorio e non seguire il vecchio format che, sia detto per inciso, rispondeva a logiche politico-clientelari piuttosto che mirare al benessere dei soggetti destinatari degli interventi e all'efficienza del sistema. O pensiamo a quei 'cesareifici' che sono molte cliniche: non è più né sostenibile né ammissibile che la Campania continui a essere la detentrice del record di parti cesarei. C'è qualcosa che non va. Le cliniche debbono cambiare faccia. Si può pensare di imporre a questi soggetti di aprire un Pronto Soccorso per codici più semplici che andrebbero ad affiancare dei Pronto Soccorso di eccellenza. Quello che dovremmo fare è implementare reti territoriali avendo l'Università come punto di eccellenza. Dobbiamo creare una struttura a più livelli: i medici sul territorio; gli ospedali; l'Università. E in quest'opera di ricostruzione e riconfigurazione la telemedicina può dare un grande aiuto. I vari livelli devono colloquiare per evitare, per esempio, la ridondanza di esami. Ed è importante capire che tutta questa riorganizzazione non è sganciata dalla questione da cui eravamo partiti, quella dell'inclusione sociale e della democrazia. Infatti, nei momenti di ristrettezze economiche chi paga l'inefficienza del sistema e la dissipazione di risorse è il povero, il socialmente deprivato, non colui che può trovare altre vie per ricevere delle prestazioni.

Il Suo accenno alla telemedicina solleva importanti questioni: come SInAPSi prestiamo attenzione ai bisogni della persona, che viene incontrata nella sua individualità. La telemedicina non rischia di operare nel senso di una erosione della relazione, che secondo noi è un'architrave delle azioni di inclusione?
Mi sono riferita alla telemedicina come a una possibile risorsa ma non come al pilastro del nuovo sistema che dobbiamo creare. Il vero pilastro - e qui concordo con voi sull'importanza della relazione - è il medico di base. È lui la figura che deve diventare centrale. Infatti, costa poco. È di facile accesso: è il primo professionista cui ci si rivolge e, spesso, anche l'ultimo, nel senso che, se gli specialisti hanno dato pareri discordanti, è spesso al medico di base che si chiede un'indicazione. È col medico di base che si instaura il vero rapporto medico/paziente, è lui che stabilisce rapporti con me e con la mia famiglia. Il bravo medico di base ha grandi capacità di counselling e per lo più funge come una sorta di case manager quando ci sono situazioni particolarmente complesse che coinvolgono più figure professionali. E poi non trascuriamo il fatto che il medico di base non ha conflitti di interessi. Puntare sulla figura del medico di base significa andare oltre la sanità spendacciona che crea superstrutture spesso inutili (penso ai centri per l'ipertensione: sono così indispensabili?). Ci dobbiamo convincere che la frammentazione e la spersonalizzazione creano spesa, spesa per di più inappropriata, di cui le persone non beneficiano. È, infatti, spesa che serve a chi eroga i servizi e non a chi dovrebbe ricevere quei servizi. Ancora una volta ci tengo a ribadirlo: operare in questa direzione è lavorare per la democrazia e per l'inclusione. Se crei un'oligarchia degli interventi finisci per produrre esclusione sociale.

Gli interventi per promuovere l'inclusione sociale, oltre a favorire l'estensione della cittadinanza attiva e della partecipazione democratica, possono rappresentare anche un volano di sviluppo economico? Se sì, in che modo?
Sicuramente sì. Lì dove l'ente può offrire servizi, i servizi liberano altre energie. Se una donna non deve occuparsi tutto il tempo dei bambini, del genitore vecchio, potrà lavorare e questo è il circolo virtuoso che dovremmo innescare.

La mission originaria di SInAPSi è di supportare gli studenti con disabilità nel loro percorso di studi. In che senso interpretare gli interventi in materia di disabilità più in ottica di pari opportunità che di politiche sociali, come Lei propone,  può rappresentare un cambio di paradigma concettuale? E quali ricadute pratiche questo può avere?
Leggere la condizione di disabilità nell'ottica delle pari opportunità significa focalizzarsi sulle possibilità della persona con disabilità e non concentrarsi sul soggetto come mero destinatario di assistenza. Porre al centro la nozione di possibilità significa vedere la persona con disabilità come soggetto attivo, che deve poter accedere a tutti i settori della vita sociale, con pari dignità. Significa considerarla soggetto portatore di diritti. Del resto è l'impostazione di tutti i più avanzati documenti internazionali e dell'Europa
 
L'Italia è stata uno dei Paesi all'avanguardia nell'impegno per l'inclusione delle persone con disabilità all'interno della scuola e dell'università. Ora c'è una nuova grande frontiera: quella dell'inserimento nel mondo del lavoro. Che cosa si può fare?
Dobbiamo essere seri e riconoscere che al momento tutto quello che si dovrebbe fare per raggiungere questo scopo per lo più non viene fatto. O non viene attuato in modo sistemico. Ci si concentra molto di più sul versante assistenza che, per quanto fondamentale, non è tuttavia il volano dell'inclusione. Ciò che si dovrebbe fare è creare sinapsi fra università, mondo delle imprese e del lavoro ed enti locali. Instaurare una rete di interazione e di sinergie che consenta di valorizzare tutte le diverse abilità. È un compito che ci attende e in cui ci dobbiamo impegnare.

Una delle missioni di SInAPSi all'interno dell'Ateneo è di supportare i giovani universitari nell'espressione del proprio potenziale. Quali sono le politiche che il Suo Assessorato sta promuovendo in favore dei giovani, che troppo spesso rischiano di essere le vittime silenti della lunga crisi economica che stiamo vivendo?
Istituzioni ed enti locali sono state chiusi ai giovani, limitandosi a finanziare piccoli progetti, per lo più senza respiro e senza progettualità. Quello che dobbiamo fare è creare condizioni di sviluppo e i giovani debbono essere messi al centro di questo processo di sviluppo. In questo senso, si deve lavorare a stretto contatto con la Regione per una legge che promuova nuove professioni (per esempio nel settore del turismo, che a me appare l'ambito da cui potrebbe venire una vera sterzata per Napoli). Per il resto, quasi senza risorse, quello che possiamo fare è creare spazi, spazi di aggregazione, e stabilire rapporti con l'Università e con altre istituzioni fondamentali per i giovani. Ma - non nascondiamocelo - è una fase da incubo ed è tutto in incubatrice.

SInAPSi non opera solamente nell'area della disabilità ma anche in quella che noi chiamiamo disagio. Sono possibili collaborazioni?
Come ente locale siamo collettori del disagio e, come sapete, già collaboriamo da tempo. Dobbiamo potenziare il nostro lavorare insieme. Abbiamo un comune obiettivo, credo: una società più sicura e giusta. Penso a tutto il lavoro che possiamo ancora fare per la rimozione di tante barriere culturali.
 
Ci colleghiamo a questa ultima Sua notazione: come vede che un Centro Servizi di Ateneo abbia un intero progetto dedicato alla questione del bullismo omofobico?
Mi sembra molto importante. Ci dobbiamo impegnare in questa direzione. Noi abbiamo la possibilità di aprire degli sportelli, in cui lavorino persone qualificate, specializzate, mi verrebbe da dire "colte". Gli sportelli dovrebbero costituire la rete di denuncia, tutela e presa in carico. Poi c'è l'azione sul lato della prevenzione, in cui strategico è il rapporto con le scuole. C'è molto da fare. E lo faremo insieme.